
Sul progressismo liberal che trionfa in tutto il mondo
Chi la dura la vince. Luciana Castellina ha la straordinaria virtù di persistere in bellezza, spregiudicatezza o incuranza, e sa come sfidare e bastonare il tempo. L’avete tutti presente, spero, la dirigente e militante comunista passata al manifesto e a mille avventure politiche sempre con la ferma intenzione di vivere e, adesso, di raccontarsi in libri e interviste che alla fine versano sul crepaccio dell’amore come tema quasi esclusivo (l’ultima, sottile e maestosa, fu pubblicata su Repubblica di sabato scorso per la firma filosofica di Antonio Gnoli).
Chi la dura la vince. Luciana Castellina ha la straordinaria virtù di persistere in bellezza, spregiudicatezza o incuranza, e sa come sfidare e bastonare il tempo. L’avete tutti presente, spero, la dirigente e militante comunista passata al manifesto e a mille avventure politiche sempre con la ferma intenzione di vivere e, adesso, di raccontarsi in libri e interviste che alla fine versano sul crepaccio dell’amore come tema quasi esclusivo (l’ultima, sottile e maestosa, fu pubblicata su Repubblica di sabato scorso per la firma filosofica di Antonio Gnoli). La Castellina ha lo charme di un grande viso pieno di luce in un magnifico corpo, ma più ancora il fascino del movimento continuo, di un attaccamento inquietante ma beato alle grandi idee sbagliate del Novecento, e poi la radice romana e la vita borghese, ma con l’internazionalismo come correttivo ideologico e mondano. E’ una che ci ha creduto ma sa sovranamente mostrarsi, nella memoria di sé e del suo mondo, come chi non abbia creduto di aver troppo creduto. Insomma la bellezza di vivere con una vocazione alla naturalezza ti consente di tutto, l’eredità plumbea di dottrina e la leggerezza sfavillante di una prassi che ora appunto torna al profilo personale, alla coppia, all’abbandono e ai legami celebri, ai figli e soprattutto ai “compagni” dell’amore.
Luciana racconta “il mio compagno”, e ovviamente non tralascia un matrimonio andato in fumo e consacrato nell’amicizia, e la libertà di compagnonnage ch’è versata nel sentimento, nell’attrazione, nell’esperienza illimitata. Gli anni Cinquanta che chiudono con l’istituzione e la famiglia, e dopo vivace e onnivora la stagione della curiosità libera e mobile. L’amore come compagnia di vita e di destino che destabilizza, che apre e rinvia ogni problema, che realizza il piacere e non scansa il dovere ma lo sublima nell’instabile comunione delle idee collettive, nella censura dei conformismi. Togliatti, dice la Castellina, volle e amò in Nilde Iotti la compagna normale, la vera moglie italiana sebbene nell’impossibilità del divorzio, eleganza gioielli portamento e affidabilità precluse alle eroine arcigne di una stagione di lotta rivoluzionaria, Teresa Noce per Luigi Longo, Rita Montagnana per il Principale.
(A proposito. Ho portato a spalla il catafalco di Ritin d’Or, per le vie di Borgo San Paolo a Torino, tanti anni fa, e ricordo che il conformismo non era così conformista, e che correva di bocca in bocca l’assioma molto ironico del segretario generale e delle sue libertà speciali, anche in un mondo di moralismo torinese poco avvezzo alle avventure dell’amore. Un dirigente di sezione, per spiegare in modo disciplinare lo scandalo ai militanti, usava dire alla fine degli anni Quaranta, che “Togliatti è il segretario del partito, a me se mi dicono di portargli ’na riga neuva tutte le mattine, io gliela porto”. Una riga nuova tutte le mattine: chiaro, no?).
Storia e storielle a parte, chi voglia capire la questione così risibile delle coppie di fatto (e in parte anche quella del matrimonio gay) deve rifarsi a questo grande tema dell’amore tra compagni di vita che i comunisti, specie gli intellettuali e gli artisti vissuti nell’orto fresco di una certa disinvoltura, hanno custodito fino a noi, come costume di modernizzazione e ultimo cono di luce di una prassi che avrebbe voluto essere di libertà (e non lo era per l’essenza). Quell’amore che non si castiga, che esonda dalla tradizione e dalle istituzioni, che non sa di domestico e abbaglia per fascino delle infinite possibilità, è il vero sedimento su cui si costruisce la casa dei cosiddetti diritti civili omologhi eretta come baluardo contro il matrimonio. E’, quella di Luciana Castellina, la versione italiana del progressismo liberal che trionfa in tutto il mondo, visto che a New York, come ha raccontato Mattia Ferraresi, hanno incaricato un bambino di dieci anni di confessare davanti al sindaco Bloomberg la religione dell’indifferentismo amoroso e della coppia di fatto che non ha problemi di genere, una robina come il Palasharp, talebani a Milano e a Manhattan in nome dell’amore vero che non è libertinaggio né matrimonio né fidanzamento ma compagnonaggio.
Magari hanno ragione, magari siamo noi conservatori che trucchiamo le carte con l’ossessione della famiglia, siamo noi che vogliamo castigare le libertà umane, e se non fosse per tutti i sacerdoti benintenzionati del vitalismo amoroso dispiegato, compresi tanti preti di sinistra, le coordinate dell’amore sarebbero una galera infernale capace di uccidere i sentimenti e i piaceri. Però a Manhattan è stabilito il record assoluto delle vite singolari o single e degli aborti e dei divorzi e delle rinunce alla paternità, specie tra i neri, e quando vedi nei quartieri chic le coppie eleganti e casual che si tirano dietro un passeggino e hanno aperto una normale pratica matrimoniale, ecco, pensi che gli uomini e le donne del nostro tempo sanno raccontarsela come gli aggrada, sanno consolarsi e rilanciare con sottile perfidia narcisista la cura della loro soggettività.


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