
Novembre, il voto sotto la pioggia
Quando alla cacciata di Berlusconi nel novembre scorso abbiamo detto che per stringenti ragioni di principio occorreva votare sotto la neve, cioè nel febbraio del 2012, ci presero per pazzi estremisti dell’autogoverno. Vararono la soluzione Monti, che abbiamo poi giudicato con equanimità e spirito di piccolo servizio alla verità delle cose. Ora vogliono votare sotto la pioggia, o così pare, a novembre, e niente è cambiato, i fondamentali dell’economia italiana sono più o meno gli stessi, e uguali i rendimenti costosissimi, vicini all’insostenibilità, dei titoli di stato da collocare sul mercato.
Quando alla cacciata di Berlusconi nel novembre scorso abbiamo detto che per stringenti ragioni di principio occorreva votare sotto la neve, cioè nel febbraio del 2012, ci presero per pazzi estremisti dell’autogoverno. Vararono la soluzione Monti, che abbiamo poi giudicato con equanimità e spirito di piccolo servizio alla verità delle cose. Ora vogliono votare sotto la pioggia, o così pare, a novembre, e niente è cambiato, i fondamentali dell’economia italiana sono più o meno gli stessi, e uguali i rendimenti costosissimi, vicini all’insostenibilità, dei titoli di stato da collocare sul mercato (Lady Spread, questa signora Macbeth della filigrana). A sinistra di questa pagina ci occupiamo degli eventi precipitosi e delle giornate di fuoco dell’economia mondiale, e domestica, a destra della reazione del sistema politico e della prospettiva di una nuova legge elettorale che apra eventualmente la strada a elezioni ravvicinate. Il cambio di passo della crisi l’avevamo segnalato per tempo, e niente può escludere, come avevamo accennato, esiti termonucleari. Ma ora affacciamo all’attenzione comune un altro problema decisivo. E’ vero che tutto cambia con la legittimazione popolare di un governo?
La risposta è: no, no e poi no. La legittimità elettorale di un governo politico è un valore in sé, con la neve o con la pioggia. La questione di sospendere quella legittimazione non avrebbe dovuto nemmeno essere proposta, a rigor di logica liberale. E in molti nel mondo, specie anglosassone, reagirono con commenti simili ai nostri a proposito di tecnocrazie che sostituiscono le democrazie. Ma la faccenda di un potere nazionale legittimato va collocata nel tempo di quelli che chiameremo “i governi di unità sovranazionale”. Berlusconi, vabbè, la lettera della Banca di Francoforte e le manovre convulse sotto dettatura di Lady Spread, estate 2011, parlano da sole. Ma quel Bersani, che ha pronta una squadra di giovani (intervista al Corriere) per rilevare da Bilderberg l’esecutivo, e fare equità e giustizia, rigore e sviluppo, mamma mia.
Riflettano tutti, se ci sia ancora in giro un barlume di intelligenza delle cose. Ti puoi insediare a Palazzo Chigi con il saluto dei Lancieri di Montebello. Puoi cercare di governare una tua maggioranza parlamentare, anche sconnessa secondo precedenti esperienze unioniste, e i rapporti con le opposizioni sociali e politiche. Ma governare la terza economia dell’euro o l’ottava mondiale, in questa temperie, è un altro tipo di lavoro, che richiede altre competenze e altre forze reali in gioco. L’Italia non è l’incubo di Montenero di Bisaccia. La gestione stracciona e demagogica e querimoniosa della campagna contro la corruzione dei partiti delle imprese della pubblica amministrazione e della classe dirigente tutta ci ha lasciato per vent’anni sostanzialmente con le pezze al culo. Dal punto di vista politico, della capacità di decidere in uno stato semper reformando e mai riformato. E vabbè, si dirà, sono cose che si curano con la politica, ci vuole tempo, pazienza.
Solo che in questi vent’anni abbiamo cambiato la moneta che abbiamo in tasca, senza una banca centrale che difenda sul serio non solo la stabilità dei prezzi ma anche la stabilità finanziaria, e la finanza inter-indipendente, i nostri stessi risparmi in mano a speculatori e cercatori equi di profitto massimizzato sui mercati mondiali aperti, più le bolle mediatico-tecnologiche, più i cambiamenti di sistema basati sulla nascita di una Germania anche politicamente forte, riunificata, popolosa, attraente fino a dover pagare per avere i suoi titoli in cassa, ecco, tutto questo porta a concludere che la rilegittimazione elettorale della politica è un valore in sé che ha perso parecchio del suo valore. In condizioni di unità nazionale, quelle che sarebbero da perseguire per ragioni fin troppo ovvie da doverle spiegare, o in condizioni di dialettica democratica dell’alternativa, comunque il prossimo governo non potrà che essere un governo di unità o di divisione a contenuto sovranazionale. Meglio unità. Piaccia o non piaccia, è così.
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