La prostituzione fraternitaire

Marianna Rizzini

Non è tempo di starsene in un cantuccio, ora, a leggere col lumicino a letto, e a schivare i guai umani rimanendo quieti in una stanza – consiglio di Blaise Pascal impossibile a seguirsi, questo, in giorni di feste e controfeste con dibattito e controdibattito sulle possibili liste da lanciare alle elezioni politiche: prima tra tutte la festa di Repubblica, quotidiano di Largo Fochetti in trasferta a Bologna dal 14 al 17 giugno.

    Non è tempo di starsene in un cantuccio, ora, a leggere col lumicino a letto, e a schivare i guai umani rimanendo quieti in una stanza – consiglio di Blaise Pascal impossibile a seguirsi, questo, in giorni di feste e controfeste con dibattito e controdibattito sulle possibili liste da lanciare alle elezioni politiche: prima tra tutte la festa di Repubblica, quotidiano di Largo Fochetti in trasferta a Bologna dal 14 al 17 giugno, giusto un weekend di distanza dalla festa del Fatto, dall’8 al 10 giugno a Gattatico (stessa Emilia ma in provincia di Reggio Emilia). E chissà se ci si è accorti della sovrapposizione: domenica 10 anteprima della festa di Repubblica con concerto di Claudio Abbado (tutti i proventi ai terremotati) e domenica 10 concerto di artisti vari alla festa del Fatto (tutti i proventi ai terremotati, ma Vasco Rossi ha detto no, ché, secondo lui, la liberalità vera si vede quando uno tira fuori il portafoglio). Kermesse solidale per kermesse solidale, festa identitaria per festa identitaria, quotidiano che si celebra (Repubblica) e quotidiano (il Fatto) che celebra Mani pulite, vent’anni dopo, celebrandosi al contempo e nonostante la recente scissione (Luca Telese se ne va e fonda un altro giornale). E’ tutta una gran concorrenza evenemenziale: i bei palazzi bolognesi contro il circolo Arci di Gattatico; di qua Umberto Eco con “quelli che la sera leggono Kant”, come dice Eco, di là Sabina Guzzanti e Marco Travaglio; di qua Mario Monti intervistato da Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro, di là Antonio Di Pietro; qui Repubblica che fa un instant book su Beppe Grillo e lì il Fatto che fa un istant book su Beppe Grillo. E’ una gran concorrenza anche commerciale e anche gaudente, e tutto un gran fuggire la solitudine delle idee e dell’idea.

    Non è neanche tempo per riflessioni da “Spleen di Parigi”, con Charles Baudelaire che parla di “un gazzettiere filantropo” (tipo perfetto per la molto filantropa gazzetta di Largo Fochetti, ci fosse stato un Largo Fochetti nella Parigi di Baudelaire), un gazzettiere filantropo che, scrive Baudelaire, va dicendo frasi come “la solitudine è cattiva per l’uomo” e cita, “a sostegno della sua tesi, come tutti gli increduli, parole dei padri della chiesa: ‘Io so che il demone frequenta volentieri i luoghi aridi, e che lo spirito d’assassinio e di lubricità si infiamma mirabilmente nelle solitudini…’”. A Baudelaire invece viene in mente che “tutte le nostre infelicità giungono a noi poiché non abbiamo saputo restare nella nostra camera, come dice un altro saggio, Pascal, credo, richiamando nella cella del raccoglimento tutti i distratti dalla follia (‘tous ces affolés’) che cercano la felicità nel movimento e in una prostituzione che potrei chiamare ‘fraternitaire’ se volessi parlare la bella lingua del mio secolo…”.
    Ma nella bella lingua del nostro secolo, nel 2012 dello sconforto, “prostituzione fraternitaria” non si dice e non si pensa. E’ tempo di andare, di mischiarsi, di stimarsi a occhio – sono qui e tu sei qui, la pensiamo così. E’ tempo di ascoltare insieme, compulsare insieme, frequentare insieme la “Repubblica delle idee”, così si chiama la tre giorni di festa del quotidiano in cui vedere, sentire, parlare, magari anche mangiare (con il fondatore di Slow food Carlo Petrini) e cantare (con Francesco De Gregori e Ligabue) e intanto seguire il grande carro del “futuro da scrivere”, così dice il sottotitolo dell’evento, come Pinocchio segue il carro che va al paese dei Balocchi, solo che qui i balocchi sono dibattiti, scrittori e pensatori. Non si corre il rischio di trasformarsi in ciuchini raglianti, in mezzo al dispiegamento di idee buone e giuste sponsorizzate dall’Enel e organizzate da Laterza, e anzi forse ci si trasformerà per “osmosi” in “intelligenti”, per dirla con il giovane sociologo Guido Vitiello, memore dell’amico toscano ospite sul divano-letto del suo studio, uno che sognava di diventare “intelligente”, appunto, dopo una notte trascorsa accanto a libri e librerie.

    Il grande evento rilascia patenti di idoneità al consesso dei buoni e giusti e acculturati, e non c’è pericolo che Nadia Urbinati, editorialista di Repubblica, se la prenda con i ciuchini di un paese non sempre dedito alle letture (infatti se la prende con chi, dal governo, pensa di premiare “lo studente dell’anno”: “Logica economica della competizione per il guadagno”, scrive orripilata Urbinati su Repubblica, all’indirizzo del “pacchetto merito” del ministro dell’Istruzione Francesco Profumo).
    C’è il logo arcobaleno come la vecchia bandiera della pace e c’è il countdown sul sito del quotidiano: meno sei giorni, otto minuti e quattro secondi alla grande “rivisitazione dell’attualità contemporanea”, scrive il direttore Ezio Mauro a proposito della festa per quella che chiama “la community, formata dal quotidiano insieme con i suoi lettori. A unirli, appunto, c’è un’idea, quella che ripetiamo sempre per spiegare chi siamo, usando una formula di Gobetti: una certa idea dell’Italia”. E’ quello che i critici di Repubblica chiamano “azionismo moralista elitario e giacobino” e che gli ammiratori di Repubblica chiamano “giornale-agorà della società civile”. E’ la “Repubblica delle idee” in cui allegramente portarsi per portare il cervello all’altezza di Rep. ma anche un po’ all’ammasso, direbbe Giovannino Guareschi, se si pensa alle orde oceaniche di altri festival – della Filosofia, della Letteratura, luoghi di pensiero alto ma semplificato dove “centomila persone”, ha scritto Edoardo Camurri nel libro “L’Italia dei miei stivali”, vanno “su e giù per conferenze”, ascoltano “lezioni magistrali di filosofi anche sconosciuti”, litigano “per le code”, prendono la pioggia, si ammalano, “felici di partecipare, anche nella loro qualità di automobilisti e telespettatori, a qualcosa in grado di migliorarli”. Ci si anima, alla festa, di cultura intesa in senso anche divistico (dov’è Massimo Cacciari? E Vandana Shiva?).
    E’ una “Repubblica delle idee” per niente platonica a dispetto del titolo, quella di Bologna, e anzi animata da querelle terrigne: il fondatore Eugenio Scalfari che lancia l’ipotesi della lista da affiancare al Pd, il direttore Ezio Mauro che dice “non siamo king maker” ma poi parla di “Pd scalabile e contendibile”, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani che accetta l’idea (prima di promettere primarie aperte) mentre Matteo Orfini, membro postdalemiano della segreteria del partito, dice (sul Fatto) di vedere scalabile, più che il Pd, la direzione di Repubblica.

    “Repubblica, come altri giornali”, dice Carlo Freccero, “cerca di sopperire alla non rappresentatività dei partiti. Di fronte al grillismo dice ‘vi diamo anche una visione del mondo, un progetto culturale incoronato in un festival’. Soprattutto, Repubblica torna ai tempi della fondazione, quando metteva in bella copia il mondo fuori dal Pci. Oggi, dopo 35 anni, alla fine di un’epoca, si mette a pettinare tutto ciò che si trova fuori dal Pd, tenta di recuperare un centrosinistra diffuso. Poi il suo è anche marketing: profondamente gutemberghiana, espande il bacino di influenza”. Pettinare. La Repubblica dei parrucchieri.
    Saranno tutti a Bologna, dal 14 al 17 giugno: le grandi firme del giornale (da Concita De Gregorio a Federico Rampini a Francesco Merlo a Natalia Aspesi a Curzio Maltese), i pensatori, i redattori, gli scrittori (non Roberto Saviano, per ora, molto impermalosito, in un’intervista sull’Espresso, con quelli che “mentono” e lo descrivono a un passo dalla discesa in campo per “delegittimarlo”). Ci sarà l’autocelebrazione: belle parole, belle mostre, ore di discussioni socialmente utili, senza neanche l’ombra, sulla carta, di un V. S. Naipaul, scrittore con il vezzo bisbetico, che al festival di Mantova, nel 2010, prese armi, bagagli e carrozzella (la sua) per andarsene dal dibattito sul suo libro, perché d’improvviso aveva perso la voglia di rispondere alle domande di Caterina Soffici, peraltro correttissime. Ci saranno tutti, al di sopra e in mezzo al pubblico vociante che secondo la direzione di Repubblica non vuole che il giornale faccia lobbying e secondo il lobbista dichiarato Fabio Bistoncini guarda invece al giornale come al riempimento di un “vuoto lasciato dai corpi sociali intermedi classici, partiti e sindacati”. Ci saranno, a “riempire il vuoto”, tra gli altri, David Grossman, Stefano Benni, Umberto Veronesi, Zygmunt Bauman, Margherita Hack, Michela Marzano, Michela Murgia, Benedetta Tobagi, Nouriel Roubini, Shirin Ebadi, Gad Lerner, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky e, tra gli altri, Anthony Giddens senza più Terza via, ché, scriveva Giddens l’altro giorno su Repubblica, c’è una sola via, ora, “cambiare stile di vita per governare il futuro”. Saranno in tanti e parleranno di “Facebook, datteri e zafferano” (dibattito con Tahar Ben Jelloun) e di “ultime indiscrezioni sui barbari” (incontro con lo scrittore più Rep. di Rep., Alessandro Baricco).  Saranno tanti e tutti della stessa compagnia di giro, al punto che, a guardare il programma, il critico Mariarosa Mancuso ha pensato al film “la Marcia dei pinguini”, quando “le bestiole bianconere sulla banchisa si mettono vicine vicine per proteggersi dalla tempesta di vento gelido. Solo che qui non vediamo la tempesta: gli invitati sono gli stessi che scrivono pagine e pagine su Repubblica – con largo uso di tv, e spesso il marchietto del copyright che rimanda all’agente che ha trattato il compenso. Non proprio i pensatori catacombali e perseguitati che credono di essere”. E se non sono pinguini, sono “alpini”, dice Mancuso, pregando gli alpini incolpevoli di “non querelare”: “Un raduno per dire siamo ancora qui, per rievocare le prodezze del passato. E così continuano certi riti, anzi peggiorano: alle feste dell’Unità la proporzione tra dibattiti e salamelle era decisamente a favore delle salamelle. Alle feste del partito di Repubblica i dibattiti non consentono neanche un tramezzino (chi oserebbe mangiarlo mentre Ezio Mauro si collega in teleconferenza per la riunione di redazione?). Però il partecipante – che immaginiamo di età e ceto medio riflessivo – ha di che nutrire lo spirito: da ‘La religione del tennis’ alla religione di Vito Mancuso, dagli oroscopi di Marco Pesatori a una lezione – aiuto – sui Pink Floyd”.

    Sarà una festa come la notte bianca di giorno, un circolo allargato in cui rispondere dal vivo ai tweet dei lettori (lo farà il vicedirettore Massimo Giannini, ma i lettori hanno già cominciato a scrivere messaggi tipo quello di “PlRusso”: “Scrivo il futuro rivoluzionando il mio cassetto mentale, accettando il cambiamento”). Sarà un tripudio di equilibrismi tra temi pesanti e leggeri – la moda, la politica ma anche il dibattito sull’“Immortalità da Omero a Twilight” con il vicedirettore Dario Cresto-Dina. Qualcuno pensa “com’è cambiata Repubblica negli ultimi anni”. Il critico Alfonso Berardinelli, invece, pensa non sia cambiata per niente. “E’ ancora come nel 1985”, dice Berardinelli, che nel 1985 ha scritto per Diario un saggio dal titolo “La Repubblica di Scalfari, un club esclusivo, ma di massa”. “Nell’imprevedibilità del momento”, dice, “tra correnti culturali e a-culturali nel senso del barbarico, Scalfari e Mauro cercano di aprire un ombrello. Non c’è dubbio che Scalfari sia stato il vero leader della sinistra, e che ora il suo giornale cerchi di uscire dalla fortezza delle pure idee, anche ma non solo per paura del grillismo o per debolezza di Bersani. Sullo sfondo però non ci sono giovani arrabbiati. E’ periodo di nichilismo secessionistico, questo, con ragazzi chiusi in una sorta di autismo collettivo. Repubblica, alla fine degli anni Ottanta, pensava di avere in mano il ceto medio e il futuro, ma poi ha scoperto che nasceva una destra su basi culturali e sociali non previste. Mi pare allora freudiano, il sottotitolo della festa di oggi: ‘Scriviamo il futuro’, perché Repubblica vent’anni fa il futuro l’ha perso, le è stato scippato, e i suoi intellettuali sono diventati malinconici, atrabiliari, votati all’‘io emigro’. Ora siamo a un’altra svolta, con Silvio Berlusconi sconfitto dai suoi incontenibili vizi privati: Repubblica cerca di non perdere il prossimo tram, ma lo fa con stile d’antan, pensando che i giovani siano Baricco, peraltro già sconfitto da Saviano”. Saviano, grande fantasma della manifestazione, presente sulla copertina dell’Espresso ma non in piazza, aleggia come modello nonostante le smentite secche – mai mi candiderò – e come riferimento ideale della principale “corrente” di Repubblica (qualche giorno fa l’Unità, a firma Francesco Cundari, ha disegnato una mappa del quotidiano, con tanto di capicorrente). E insomma la festa di Bologna è parsa a molti anche una prova generale di casting per l’eventuale lista “Giustizia e Libertà” (con Zagrebelsky, Rodotà e Concita tra i più gettonati).

    Che abbia o meno ragione Alfonso Berardinelli, a Largo Fochetti si pensa che i giovani alla festa accorreranno e saranno quelli che di solito non comprano il giornale di carta. Gli esperti del settore dicono che l’operazione ha le carte per sfondare. Marco Pratellesi, direttore editoriale del settore digitale di Condé Nast, dice che, sulla base dell’esperienza maturata con le iniziative di “apertura ai lettori” fatte a Vogue o a Vanity Fair, con concerti e personal shopper per i lettori, il “metterci la faccia di Ezio Mauro funzionerà”. “Anche il Los Angeles Times aveva permesso ai lettori di assistere alla riunione”, dice Pratellesi: “C’è una grande domanda di democratizzazione, si è visto che la possibilità di incontrarsi fisicamente, come al festival di Internazionale, rafforza la testata”. I lettori, alla Festa di Repubblica, per un giorno si faranno co-autori: “Passare a bottega”, scrive nella presentazione Cresto-Dina, assicurando disponibilità a svelarsi nella fatica quotidiana. (Fare il giornale, per lui, è come giocare a “Shanghai”, il gioco cinese con le asticelle colorate da sfilare una a una senza muovere i bastoncini vicini). Il grande sciame fluttuerà per palazzi e cortili in nome di “Rep”, scritto proprio così, come ha notato su Twitter Christian Rocca, direttore di “Il” e un tempo autore della rubrica “Recensire Rep.” su questo giornale (“felice che Rep ora piaccia anche a Rep.”, scrive).
    Scrivete il futuro, il vostro, ha chiesto Mauro ai lettori sul Web, sottoponendo l’idea-base del democratico evento a un primo bagno di folla senza volto in attesa dei volti veri, con Vittorio Zucconi che guarda in faccia gli ascoltatori di Radio Capital mentre i capi di Largo Fochetti “divulgano senza annacquare” (questa l’intenzione dei dibattiti, si legge su Rep.).
    “Grande idea dal punto di vista dell’identity brand, questa della festa, che porta al rafforzamento dell’identificazione attraverso l’enfatizzazione di idee convergenti e rappresentative di un certo pubblico”, dice il critico televisivo del Corriere della Sera Aldo Grasso, guardando al bisogno della “lectio magistralis del direttore del giornale” come a un effetto derivato dalla tv: “Si ha bisogno di rivedere quelle facce, i nuovi idoli”. L’ostensione del corpo del giornale porta con sé “un’ambivalenza”, dice Ida Dominjanni, firma storica del Manifesto convinta che per un giornale sia del tutto legittimo l’evento che diffonde l’idea (“l’avete fatto anche voi al Foglio, con le mutande stese al Teatro Dal Verme”, dice). Questi appuntamenti, per Dominjanni, “rispondono a un bisogno di cultura che è l’altra faccia della crisi della politica. Si dice sempre che i politici sono ‘casta’, ma non si parla mai della loro ignoranza crassa. Non leggono, ma scrivono libri in quantità. Il megaevento non permette di approfondire, ma segnala un’esigenza in un momento in cui si sta disinvestendo nella cultura sul piano economico e simbolico”.

    “Giornale autoreferente”, ha scritto Scalfari qualche giorno fa, parlando del quotidiano da lui fondato nel 1976: “Si rivolge a un’opinione pubblica strutturata e risponde solo a lei. Siamo noi che decidiamo dove stiamo” (dove stia, Scalfari, lo si è capito dalle sue metafore ematologiche: il Pd che ha bisogno di “trasfusioni di sangue nuovo” o “circolazione extracorporea di sangue nuovo”). In ogni caso, alla vigilia della festa, il Fondatore si diverte col vintage. La vecchia prima pagina, il video amarcord in prima persona: 14 gennaio 1976, primo giorno di pubblicazione, Caracciolo che va per strada a “strillonare”, intervista al leader socialista Francesco De Martino da una casa piena di canarini, ansia in tipografia, grandi obiettivi (superare il Corriere), molti giovani alle prime armi, punizioni esemplari alla presenza di tutti, tre giri di chiglia per chi sbaglia – tre giorni di sospensione dal lavoro, ma devi venire in redazione a non fare niente”.
    “A volte le cose ritornano”, dice il sociologo Alberto Abruzzese, “con l’evidenza di un teorema geometrico e l’inquietante continuità di una tradizione più profonda delle bandiere di partito: dalla Festa dell’Unità, che nacque paesana e nazional-popolare per sopravvivere sino a oggi senza più nome e annebbiata nel suo sinistrese dissolversi con il troppo presuntuoso dissolversi del Pci, siamo arrivati alla Festa della Repubblica. Quando le feste dell’Unità nacquero furono un miracolo di volontarismo progressista, socialmente radicato nel modello della sagra religiosa, capace di mettere insieme riti d’ordine e pagana speranza. Furono quelle feste, macchine di partecipazione, a gettare le basi delle macchine di consenso, pubbliche e private, che presero a investire su eventi d’aura metropolitana. Una lunga vicenda – da Massenzio-Cinema in poi.

    La Festa di Repubblica s’annuncia non più come avanguardia ma come retroguardia e il suo contenuto e la sua forma rivelano la forza e la continuità di élite intellettuali che in questi decenni si sono generate l’una dall’altra, e che alimentano l’industria culturale colta e medio-colta, cercando nella piazza/libreria quello che non sanno e non possono trovare nella società”. Tuttavia Abruzzese dice: “E’ ingenuo credere che all’autorità degli eventi si possa rispondere con il ritorno a una cultura intima, al libro interiore”. Sia come sia, la kermesse bolognese rischia battute alla Giancarlo Pajetta, che trovandosi un giorno a una festa dell’Avanti, disse: “Sembra la festa dell’Unità dell’Avanti”.
    “Sguazzare nella placenta della cultura”, dice ancora Guido Vitiello, offre “gratificazioni narcisistiche: una transumanza di qualche giorno da uno scrittore all’altro, da un Umberto Eco che si vanta di leggere Husserl in cyclette a un Michele Serra che elogia le virtù civili del corretto uso del congiuntivo, e si ha la certezza di esser parte dell’Italia degli intelligenti. Nonché dei buoni: perché un certo veltronismo diffuso che alligna nella società letteraria e nel mondo editoriale – caricatura dell’utopia erasmiana – ha fatto passare l’idea al tempo stesso adulatoria e mortificante secondo cui la cultura è qualcosa che unisce le persone perbene. Quando è vero che per secoli le persone perbene se le sono date di santa ragione proprio perché prendevano la cultura tremendamente sul serio. Sospetto che questa ‘Repubblica delle Idee’ sarà tutto un darsi ragione a vicenda (per non usare la più vivace formula fellatoria di ‘Pulp Fiction’), perché risponde anzitutto a un desiderio di autocertificazione culturale, non diverso da quello esaudito dalle trasmissioni deamicisiane del duo Fazio-Saviano”. Attenzione però, dice Vitiello, “a fare i radical chic di secondo grado che ironizzano sui radical chic di primo grado”. Meglio “ricorrere a una pagina di Ennio Flaiano, datata 1948: ‘Un’avida e pacifica società, che fino a ieri si radunava per divertirsi, ha ora scoperto che altrove ci si aduna anche per pretesti che non siano il cibo e l’amore: per l’arte e per la politica. Comunque, è necessario adunarsi, partecipare… Se arriva il poeta inglese nessuno di coloro che lo sentono nominare per la prima volta vuol mancare. Ma i più furbi sanno che i posti migliori sono vicino alla porta e se ne vanno allegramente a metà conferenza: anche la cultura ha un limite! Ma, calma: sono previsti nuovi arrivi. La politica, l’arte, la letteratura, il pensiero contemporaneo possono dormire tranquillamente: la mondanità li protegge…’”.
    A Largo Fochetti, intanto, fervono i preparativi. Il sito ne spara una ogni giorno. Ultimo spot: i trenta “sognatori” di “Next”, i trenta italiani che “ci cambieranno la vita” (maddai e magari).

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.