
Monti, la fine dello stato di grazia
L’emergenza finanziaria in quattro, cinque mesi è calata di tono, senza che si sia creata una effettiva zona di sicurezza per alcuno, tanto meno per l’Italia. E questo indebolisce il governo. La recessione è arrivata, ha tratti minacciosi, ha una perversa relazione sia con la crisi da debito sia con l’austerità che cerca di tenerla sotto controllo, e la via d’uscita dello sviluppo con più occupazione, investimenti e consumi è sempre più difficile da inventare.
Guarda la puntata di "Qui Radio Londra" Perché il governo Monti si è indebolito
L’emergenza finanziaria in quattro, cinque mesi è calata di tono, senza che si sia creata una effettiva zona di sicurezza per alcuno, tanto meno per l’Italia. E questo indebolisce il governo. La recessione è arrivata, ha tratti minacciosi, ha una perversa relazione sia con la crisi da debito sia con l’austerità che cerca di tenerla sotto controllo, e la via d’uscita dello sviluppo con più occupazione, investimenti e consumi è sempre più difficile da inventare. Incombono nuovi trasferimenti fiscali del reddito spendibile, via tasse sulla casa e imposta sul valore aggiunto. E questo indebolisce il governo. Ci si avvicina alla tornata delle elezioni politiche praticamente al buio, siamo in mezzo a elezioni amministrative mai così confuse e sciamannate, la riforma elettorale balla al ritmo di convenienze girevoli, l’insicurezza da scandali e intercettazioni affligge tutti i partiti, sempre molto impopolari, la funzione di garanzia attiva del Quirinale è meno corposa a mano a mano che il calendario conta i giorni di fine mandato per Giorgio Napolitano. E questo indebolisce il governo.
L’unico punto favorevole per l’efficienza e la capacità di guida dell’esecutivo, varato per decisione unanime di Berlusconi e Bersani e Casini nel mezzo della scampagnata dei mercati sui nostri titoli di stato del novembre scorso, sta nel suo agire da fattore esterno alla politica parlamentare, nella sua natura commissariale, nella sua identità eurotecnica, nella sua rispettosa distanza istituzionale dai partiti che hanno fallito nel governo e nell’opposizione dopo le elezioni del 2008, nella mancanza di alternative immediate. Con la gestione vecchio stile della riforma del mercato del lavoro, il governo Monti ha ottenuto un risultato di compromesso che ognuno può giudicare come desideri, qui lo si giudica un passo avanti (senza entusiasmo), ma si è chiaramente impaludato in una procedura che gli complica la vita e rimette all’onore del mondo le convulsioni del politicismo all’italiana. Nei pochi mesi che mancano all’inizio della campagna elettorale 2013 i tecnici rischiano di bruciare il bilancio dei cento giorni su tutti i fronti, da quello dell’opinione pubblica italiana a quello della credibilità del paese in Europa e nel mondo. E’ comprensibile che, dopo le pensioni e le liberalizzazioni per decreto, a colpi di fiducia, Monti e Fornero abbiano cercato una firma comune intorno a un compromesso sul lavoro che premeva per ragioni diverse a partiti, Confindustria e sindacati. La firma non c’è stata, il decreto nemmeno, e ora tutto si complica in un iter parlamentare insidioso, in un chiacchiericcio degno della vecchia commedia politico-sociale. In più il governo predica uno strano immobilismo in materia di abbattimento del debito e di accumulo di risorse per la crescita economica. Che è come dichiarare esaurita la propria funzione in anticipo. E’ sperabile che Monti e Napolitano ci riflettano, e trovino una soluzione. Che l’operazione Monti riesca, a questo punto, è nell’interesse perfino dei partiti, salvo il composito e attivistico partito della zizzania, per il quale un Monti che lavora in continuità istituzionale con il predecessore, che non divide e non danna la memoria e non fa giochini di ruolo è uno scandalo intollerabile.
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