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Craxi, Marchionne e Monti
Guardatevi la lettera di Del Turco in ultima pagina del Foglio. Dice tutto. Merloni capo confindustriale, il 14 febbraio del 1984, ebbe la tentazione di fare come farà la Marcegaglia tanti anni dopo; ma la Marcegaglia è un portavoce insicuro, il peggiore che i padroni abbiano mai avuto, e ha superato il predecessore, che alla fine firmò “la discordia”. Era meglio non fare niente, dice la speaker in difesa dello status quo.
Guardatevi la lettera di Del Turco in ultima pagina del Foglio. Dice tutto. Merloni capo confindustriale, il 14 febbraio del 1984, ebbe la tentazione di fare come farà la Marcegaglia tanti anni dopo; ma la Marcegaglia è un portavoce insicuro, il peggiore che i padroni abbiano mai avuto, e ha superato il predecessore, che alla fine firmò “la discordia”. Era meglio non fare niente, dice la speaker in difesa dello status quo. La Stampa di Agnelli titolò sul taglio della scala mobile via decreto: “Il decreto della discordia”. Quella di John Elkann si è accorta del fenomeno Marchionne solo quando non poteva più far finta di niente. Impongono disciplina e obbedienza sui profitti e gli interessi particolari, ma lo stato del paese che abitano li coglie olimpici, super partes. Non chiedete battaglie civili e culturali ai giornali dei padroni torinesi, riceverete lenticchie e cozze pelose.
Il governo Craxi era la quintessenza di un governo politico, il suo capo accolse la sfida del referendum dicendo che in caso di abrogazione del decreto si sarebbe dimesso “un minuto dopo”. C’era una maggioranza infida, che fu tenuta insieme dalla leadership socialista dell’esecutivo, e c’era la solita Italia opportunista, oscillante, menefreghista, i soliti chierici borghesi inclini all’attendismo. Il problema era ben altro, ma che vogliono Craxi e Tarantelli? Uno finì in latitanza, l’altro sotto terra. Ma che vogliono Marchionne e la Fornero? Il problema è ben altro che la riforma del mercato del lavoro, la facoltà di organizzare un’impresa liberamente. Quisquilie. Pinzillacchere. Vuoi mettere una bella photo-opportunity Marcegaglia-Camusso, due femmes en colère a disposizione di democrazia e giustizia sociale. Vuoi mettere le gioie dell’antipolitica. Però se lo spread sale, e di brutto, vedete come arititoleranno il loro FATE PRESTO. Li detesto, questi ipocriti, perché li conosco.
Il Wall Street Journal, che è una specie di Bibbia, non li conosce. Fa del profetismo astratto, elegante e mordace, ma astratto. Monti ha mandato giustamente a cagare le pretese concertative di queste “parti sociali”, poi ha fatto un compromesso con i partiti che garantiscono con il loro voto la vita del governo e il percorso di emergenza per il quale è stato chiamato, con voto di fiducia delle Camere. Il risultato del compromesso è sostanzialmente riformatore, perché (oltre al resto della riforma) sui licenziamenti economici “discussi” il giudizio adesso può stabilire un risarcimento, il che è una novità fino a ieri inimmaginabile, dopo la sagra della primavera di Cofferati al Circo Massimo e la fine ingloriosa del Patto per l’Italia di Berlusconi; ma è anche formalmente insufficiente, perché ai magistrati del lavoro (sarei meno ottimista della Fornero sulla affidabilità della loro giurisprudenza) è stato restituito lo strumento deterrente della reintegrazione in caso di “manifesta insussistenza” dei motivi economici di un licenziamento. Monti non è la Thatcher, non ha una maggioranza sua, non è figlio di un droghiere, deve fronteggiare la crisi del capitalismo finanziario e non l’invadenza del socialismo di stato. Sopra tutto, gli inglesi sono capaci di stare al buio per settimane se Scargill fa mancare il carbone, gli italiani sono sottomessi ai capricci degli imprenditori come Barilla e De Benedetti, e pensano che il pane gli verrà dalle loro furbe convenienze del momento, non da riforme generali e da svolte di cultura sociale. Preti e intellettuali sono convinti che il lavoro non è una merce, e nemmeno un bene scambiato con salario e diritti: è un “valore”, e forse è per questo che ce n’è tanto poco e meschino.
Napolitano non ha dato l’incarico a Marchionne, che ha rotto con la Confindustria e con il sindacato, e ha stabilito regole possibili di uso degli impianti in regime di concorrenza competitiva strappando il consenso dei lavoratori via referendum. Marchionne decide da solo, il consenso di cui ha bisogno è quello del capitale, e i suoi operai di Mirafiori e Pomigliano hanno capito che le imprese non si salvano con i paternoster. Ma ora, come per Marchionne e il suo modello americano, dilaga il disprezzo per Monti, e il suo modello tedesco. Al perfezionamento del quale mancano due piccoli tasselli (ironia): la cogestione, cioè la fine della lotta di classe del Novecento, che i tedeschi seppellirono a Bad Godesberg quando la socialdemocrazia vinse la battaglia contro il classismo; e una magistratura la quale ratifica l’interesse comune d’impresa di capitale e lavoratori, non l’interesse militante e falsamente compassionevole del lavoro come “valore”.
Confermo con sempre maggiore decisione il mio berlusconismo, tendenza Monti. Le vite parallele di riformatori più o meno coraggiosi e avventurosi, viste alla luce di un paese quasi irriformabile, fanno capire tante cose. C’è sempre ben altro da fare, quando non si vuol fare niente. Il partito della zizzania desidera scontri frontali sulla tv, e vuole sopra tutto scongiurare una prospettiva di unità nazionale, che toglierebbe ossigeno ideologico alle contese farlocche ma feroci di cui abbiamo vissuto per quasi vent’anni.
Non ci si batte per un sindacato riformista, per una cultura del cambiamento alla Pietro Ichino, e per una Confindustria che faccia il suo mestiere. Si nutre una confusione antipolitica orchestrata, per imporre alla sinistra di restare succuba delle lobby che non volevano il taglio della scala mobile e saltano addosso a Monti e Fornero, ministri della discordia. Rinnovo il mio augurio di una Lady Spread a settecento.


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