
La storia non siamo noi, e la buona lezione del cattivo maestro
Idolatrare il passato e farlo sempre più minimalmente nostro. E’ la versione stupida della memoria cosiddetta condivisa. Ma la storia non siamo noi, e il passato va anche mortificato, come sapevano il mistico e il musicista-dandy. Il libro di Adriano Sofri sulla strage è un avvenimento. Vero, in un tempo di eventi finti. Nuovo, in un’epoca di vecchiume che ci si ripropone sempre identico.
Leggi Che palle la strage di stato di Giuliano Ferrara
“Con ‘mortificare il passato’ Giovanni della Croce intendeva che il timore di cambiare il passato è timore del presente? Io mortifico il mio passato ognivolta che mi siedo al piano a comporre”.
Igor Stravinskij a Robert Craft (“Ricordi e commenti”, Adelphi)
Idolatrare il passato e farlo sempre più minimalmente nostro. E’ la versione stupida della memoria cosiddetta condivisa. Ma la storia non siamo noi, e il passato va anche mortificato, come sapevano il mistico e il musicista-dandy.
Il libro di Adriano Sofri sulla strage è un avvenimento. Vero, in un tempo di eventi finti. Nuovo, in un’epoca di vecchiume che ci si ripropone sempre identico. Coraggioso, e sono anni di imboscamento dell’orgoglio di pensare da soli o in piccoli gruppi sotto le spoglie della correttezza per tutti, buona a tutto, anni di incomprensibile vigliaccheria quando tutti gli strumenti di comunicazione disponibili (un caso è questa esplosione gratuita nel web) consentono la massima libertà. Il perché dica queste cose è ovvio, e non solo per via della mia nota amicizia per Sofri, che non esclude mai il dissenso, che procede dalla realtà della storia collettiva e personale in movimento, che si nutre non soltanto di affetto ma di attenzione a ciò che è importante. Non mi piaceva il Sofri politico di Lotta Continua, ero un’altra variante (da rinnegare, rinnegata) degli “ideali di gioventù” della generazione anni Sessanta ancora cari al simpatico bullo di Piacenza Bersani, quella comunista e cacciatrice di estremismi e spontaneismi sociali. Mi piacque fino in fondo l’accusato del delitto Calabresi, che fece una difesa “apolitica”, una strenua rivendicazione di non colpevolezza che fu al tempo stesso una lezione non superba di storia per i suoi compagni d’un tempo e per le classi intellettuali immemori del loro stesso comportamento omissivo e fiancheggiatorio trasformatosi in arcigna denigrazione e in calunnia. Mi piacque senza riserve il condannato e l’assolto, il combattente e prigioniero volontario e consapevole, il difensore di una vita stroncata, la sua, in nome e per conto delle vite di tanti. E mi disgusta anche solo il pensiero di quanti stupidi conformisti hanno prosperato nella loro insania continuando a recitare senza vedere e capire la filastrocca del “cattivo maestro” sputacchiata su un uomo inerme, e perfettamente innocente delle accuse di Marino, che divenne il capro espiatorio della viltà e del conformismo nazionali.
Ora proprio io, che al contrario di questi dementi censori del decennio dopo in quell’epoca abbracciai il doppio mestiere di funzionario comunista e di vicequestore ad honorem per la caccia ai terroristi, io che giudicavo vergognosa la campagna contro Calabresi, leggo nel libro istantaneo di Sofri su Piazza Fontana lo smantellamento definitivo della grottesca costruzione mitica della strage e delle sue conseguenze da cui continuiamo ad essere perseguitati con robe come il libro smontato da Sofri, e tanto altro materiale di risulta che oggi i giornali pubblicano e ripubblicano senza criterio, e che corre di bocca in bocca tra coloro che affettano di sapere, che ripetono la solfa profetica di Pasolini come un gargarismo di odio e di bile. “Io so, anche se non ho le prove”: un icasmo bestiale in linea con quella che Guido Vitiello richiamava sabato nel Foglio come la nostra grande tradizione inquisitoriale. La storia non siamo noi, noi non siamo la storia. E mi dispiace per Gianni Minoli e la sua fortunata rubrica in tv, che ha per titolo “La storia siamo noi”, e che fa da educational in modi spesso equilibrati, ma risente nella sua stessa formulazione del grande equivoco ideologico partorito negli anni Sessanta e sanzionato dalla percezione nel tempo di quella orrenda carneficina in un pomeriggio del 12 dicembre 1969. Ai comizi torinesi di Guido Quazza, storico azionista e partigiano, sentivo ripetere che la Resistenza era stata tradita, leggenda incubatrice di violenza e terrore che schiacciava sul presente la percezione giovanile del tempo. L’antifascismo militante voleva convincermi che “uccidere un fascista non è reato”, un omaggio schifoso e immorale alle bellurie e ai falsi storici sulla realtà del fascismo e dell’antifascismo italiano, negli anni riviste da una scuola storica coraggiosa (Renzo De Felice), e da un plotone di editorialisti e inchiestisti di marca revisionista (Mieli, Battista, Galli della Loggia e molti altri).
Educato alla scuola politica del togliattismo, sapevo benissimo, fin da testimonianze degli anni Trenta del leader stalinista propalate per radio da Mosca, che il fascismo era parte vera della storia del paese e che i conti con il fascismo dovevano essere chiusi in nome del repubblicanesimo politico, amnistia compresa, e non sempre riaperti dalle reviviscenze attivistiche risultate poi copertura di violenza e volute dai benintenzionati dell’ex Partito d’Azione con la campagna per la messa fuori legge del Msi. E’ una vita che non bevo leggende di unificazione e omologazione delle coscienze, e vedere che nel caso di scuola della strage di stato emerge da una cattedra per me adamantina, senza bisogno di concordare con tutto quel che ha scritto, una voce disincantata e autentica come quella di Sofri mi fa bene all’intelligenza, la cosa più preziosa che c’è insieme con il cuore, la cosa più rara che c’è.
Si levi di torno l’idea che noi possiamo portarci appresso la storia come una valigetta da commossi viaggiatori da cui estrarre fatti e profezie da trivio per il bisogno e il desiderio di compiacere le nostre idee così provvisorie e i nostri pregiudizi così duri a morire. La storia come storia è un affare serio. Come leggenda nera, è una sassata delle tante che ci piace tirare a casaccio. Basta un tweet, caro Michele Serra, una frasetta di pochi caratteri, per dire quel che va detto ai rammemoratori nevrotici, ai rinfocolatori ambigui, ai falsificatori e eterni celebranti di una memoria che uccide il vero rapporto adulto con il passato: la storia non siamo noi.
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