
Fedeli agli ideali di gioventù, ecco in che senso
Io sono perché ci sia una forte deterrenza verso il pericolo di abusi in materia di diritto del lavoro, ovvio. Non penso che il cambiamento dell’articolo 18 dello Statuto, nel punto cruciale che riguarda la facoltà per un’impresa di licenziare per ragioni economiche un dipendente, sia di per sé l’innesco di una spirale virtuosa che farà sviluppare l’apparato produttivo e creerà lavoro.
Leggi DA OGGI OGNUNO E’ PIU’ LIBERO di Giuliano Ferrara
Io sono perché ci sia una forte deterrenza verso il pericolo di abusi in materia di diritto del lavoro, ovvio. Non penso che il cambiamento dell’articolo 18 dello Statuto, nel punto cruciale che riguarda la facoltà per un’impresa di licenziare per ragioni economiche un dipendente, sia di per sé l’innesco di una spirale virtuosa che farà sviluppare l’apparato produttivo e creerà lavoro. Non faccio il propagandista della Banca centrale europea, di mestiere, anche se non mi sento in lotta contro il capitalismo finanziario e industriale dell’occidente e non è mia né l’ideologia della Fiom né quella degli occupy Wall Street né quella dei NoTav o del portavoce laburista della Conferenza episcopale. Sono stato comunista, una cosa seria e di una terribile cupezza e intensità, se vissuta con lealtà verso le proprie idee, e ho visto che cosa significa: penso che il muro di Berlino non sia caduto per permettere a una nomenclatura di sopravvissuti e chiacchieroni di dare lezione al mondo libero su come si debba vivere, e quando sento Bersani da Vespa che ripete l’infausta frase di Berlinguer (“Nell’incertezza, resto legato agli ideali della mia giovinezza”) m’incazzo di brutto, perché gli ideali della mia giovinezza erano quelli di Amendola e Di Vittorio, gente che sapeva che cosa fossero la produzione e il lavoro, non quelli di certe mezzecalze di sociologi che straparlano di cose che non sanno e fanno la pantomima della lotta di classe su Stampa e Repubblica.
Insomma, non è per l’ideologia delle compatibilità produttive e per automatismi di senso comune conformista che approvo e difendo, pur sapendo che è alto il rischio di uno stravolgimento equivoco, la riforma della Fornero e di Monti. Lo faccio perché non credo che l’Italia immobilista, stagnante, pigra, il paese dei sudditi tutelati che approfittano del poco lavoro che c’è e difendono il posto fisso con le unghie e con i denti, anche dai giovani e dalle donne non garantite, sia il paradiso dei lavoratori dipendenti, un modello sociale utile a vivere meglio, un luogo di libertà e di responsabilità. So, al contrario, che in questa terra di retori abusivi, di tenori della Costituzione, di finti democratici che prima favoriscono il governo Monti tecnocratico per levarsi di torno un provocatore come Berlusconi, poi si intimoriscono di fronte alle conseguenze delle loro azioni e dicono che avevano scherzato, che vogliono (risate) il modello tedesco, che se si fa sul serio con le riforme di struttura, allora è meglio il vecchio inciucio. A me Pomicino piace pure, e sono disposto a difendere le ragioni perfino del debito pubblico per come storicamente si è formato, e la cultura della mediazione democristiana l’ho seguita e studiata comprendendone il significato in quell’Italia lì in cui nacque, ma è dal referendum sulla scala mobile, quasi trent’anni fa, da quando Craxi disse che si sarebbe dimesso un minuto dopo una eventuale sconfitta, da quella stagione di veti sociali produttivi solo di bassi salari e di loschi poteri corporativi che le mie idee sono legate al carro di chi fa o almeno promette di fare le cose giuste che tutti sanno giuste. Diciamo, per riferirmi alle bullaggini del capo del Pd, che sono fedele alla stagione in cui gli ideali della mia gioventù si rivelarono un’esca per i gonzi produttrice di miseria.
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