Polemiche

Giuliano Ferrara

Il teorema politico di Marco Travaglio è questo, spiattellato ieri sul suo giornale con la solita chiarezza espositiva. Tutto era pronto in autunno per fare davvero la festa a Berlusconi e a quel che aveva rappresentato per diciassette anni (il male assoluto). Doveva perdere la maggioranza in Parlamento, con il conforto dei democristiani del Pdl e della eroica Carlucci, poi doveva perdere le elezioni a suon di bunga bunga, e infine si doveva formare un governo Monti curatore dell’emergenza, anche a copertura di una storica bastonatura di quell’imprenditore-gangster.

    Il teorema politico di Marco Travaglio è questo, spiattellato ieri sul suo giornale con la solita chiarezza espositiva. Tutto era pronto in autunno per fare davvero la festa a Berlusconi e a quel che aveva rappresentato per diciassette anni (il male assoluto). Doveva perdere la maggioranza in Parlamento, con il conforto dei democristiani del Pdl e della eroica Carlucci, poi doveva perdere le elezioni a suon di bunga bunga, e infine si doveva formare un governo Monti curatore dell’emergenza, anche a copertura di una storica bastonatura di quell’imprenditore-gangster. Chiamasi equità, per lo meno politica. L’Italia sognata dai travaglisti, coscienza militante dei debenedettiani e di altri poteri di establishment da sempre sotterraneamente collegati ai manettari, era quella: riforma delle pensioni forse sì, patrimoniale forse pure, magari anche un accordo sul mercato del lavoro meno oneroso per la Cgil, ma in cambio Piazzale Loreto. All’uopo però sarebbe servito uno Scalfaro modello 1994, non un Napolitano (“il finto tonto” lo chiamano) modello 2011. Non è andata, e Travaglio piange. Piagnucolano anche i republicones, ma cercano di non farsene accorgere. L’attivismo politico anti Monti di Carlo De Benedetti è meno decifrabile delle gride manettare, ma procede impavido e parrebbe avere come obiettivo la crisi del modello Monti, Prodi al Quirinale, e la ricostruzione di un frontismo antiberlusconiano per fare nel 2013 quel che non sono stati in grado di fare nel 2011.

    Questo teorema politico-giudiziario il primo a capirlo d’istinto è stato Berlusconi, quando ha smesso di fare il furbo con il distacco della spina a Monti. Berlusconi però non vuole come al solito pagare alcun prezzo politico, dopo quello delle dimissioni. E quindi tarda a capire che deve mollare lo spirito di partito e superarlo con una proposta di coalizione moderata e riformatrice, capace di interpretare il meglio dell’esperienza istituzionale e decisionale di Monti e Fornero, in cui a dare le carte non sarà più lui, ma la sua forza e la forza delle sue storiche idee mai realizzate uscirebbero vittoriose. Il Cav. ci è notoriamente amico, magis amica la serie di riforme che alla fine sono arrivate: erano dure a farsi con la legittimazione democratica piena, in questo sistema politico di merda e con un personale troppo indefessamente andreottiano, si stanno facendo strada con una legittimazione euro-tedesca e Bce. Meglio di niente, anzi, una buona cosa. A patto di saperla riconoscere e di scrivere “l’altro teorema”, che ha il nome provvisorio di “Tutti per l’Italia”. A forza di esitare, saranno altri a scendere in pista e a realizzarlo, con buchi ed equivoci che ci potrebbero alla fine riportare al teorema del buon Travaglio. Quel che non si è potuto fare nell’autunno dell’anno scorso, si potrebbe realizzare nella primavera del 2013. E vabbè, non è la prima volta che Berlusconi non sta a sentire, e si appisola.

    Il teorema sociale di Guido Viale è questo, esposto con eloquenza nel Manifesto di ieri. E’ tornato Vittorio Valletta. La Fornero non riforma affatto il mercato del lavoro, dà invece ai padroni lo strumento per opprimere e dominare la forza lavoro. Produce, la facoltà di licenziare i dipendenti per ragioni economiche, un’Italia sottosopra in cui gli anziani espulsi faranno la questua ai loro figli per sopravvivere in un welfare rachitico, con una dismisura furiosa di imprenditori che licenzieranno come e peggio che negli anni Cinquanta. Sarà un paese peggiore di quello di Valletta, perché non c’è il boom, ma la recessione. E così il sociologo e pubblicista militante, che ha una posizione chiara e rispettabile, non ipocrita, chiama alla lotta senza se e senza ma nel segno degli stessi equivoci classisti che hanno tormentato il movimento sindacale e gli hanno rifilato numerose sconfitte, da quelle degli anni Cinquanta con i reparti confino a quelle seguite alla baldoria anni Sessanta-Settanta e finite con la umiliante perdita della roccaforte della Fiat nel 1980. Viale non può, per motivi di cultura e ideologia, non odiare politicamente, con una prosa civile accettabile, i borghesi di sinistra che hanno studiato i dossier, come la torinese Fornero, e che avanzano senza tentennamenti su una strada segnata dall’evoluzione globale del capitalismo finanziario e industriale, sulla traccia della lettera d’agosto scorso della Banca centrale di Francoforte. Ma non si accorge che la battaglia è meno limpida di quanto lui creda. Al suo fianco i vescovi prodiani come Bregantini, che saltano sul carro dell’umanità del lavoro, come se la riforma del mercato del lavoro disumanizzasse le persone e i loro diritti, parola d’ordine pericolosa e in sé politicamente violenta. O un Carlo De Benedetti che considera inutile e dannosa la storica riforma della norma sui licenziamenti economici. O la maggioranza del carrozzone confindustriale che elegge “l’uomo del dialogo e della mediazione” e si disfa di ogni velleità riformatrice, almeno fino a prova contraria, dopo aver posato, con la ineffabile Marcegaglia, in photo opporunity anti Marchionne, il manager espulso dalla Confindustria e odiatissimo dalla business community italiana, da quelli che amano risolvere i problemi sociali rifilando alle Poste i dipendenti della Olivetti, non conquistando via referendum tra i lavoratori nuovi contratti aziendali come è successo a Pomigliano e Mirafiori. Se i salari resteranno bassi, lo sviluppo da paese povero, la base occupazionale sarà ristretta, il lavoro qualificato languirà, i giovani faranno i saltimbanchi del precariato da circo, se tutto questo avverrà, la causa è chiara: Monti e Fornero espulsi come corpi estranei, o costretti a un’umiliante retromarcia, dalla solita alleanza obliqua delle idee deboli di tipo pansindacalista, e dalle grandi corporazioni nemiche di cambiamenti resi necessari e perfino ovvii da come è evoluto il capitalismo mondiale. Un bel teorema social-rivoluzionario.

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.