Conflitti di giustizia

Giuliano Ferrara

Giustizia, buone notizie da Roma. Il procuratore generale della Cassazione ha detto ieri che nel processo a Marcello Dell’Utri, condannato a sette anni per mafia, mancava addirittura il capo d’imputazione e che al reato di concorso esterno ormai “non crede più nessuno”. I giudici della quinta sezione hanno accolto la sua tesi e hanno rinviato il fascicolo alla corte d’appello di Palermo per un nuovo esame.

    Giustizia, buone notizie da Roma. Il procuratore generale della Cassazione ha detto ieri che nel processo a Marcello Dell’Utri, condannato a sette anni per mafia, mancava addirittura il capo d’imputazione e che al reato di concorso esterno ormai “non crede più nessuno”. I giudici della quinta sezione hanno accolto la sua tesi e hanno rinviato il fascicolo alla corte d’appello di Palermo per un nuovo esame.

    Giustizia, brutte notizie dalla Sicilia. Massimo Bordin, conoscitore impareggiabile delle storie e malastorie di giustizia, ha rimarcato sul Riformista che la procura di Caltanissetta ha escluso, stando agli atti, che l’omicidio Borsellino possa inquadrarsi in una spaventosa macchinazione politica, il famigerato e spettrale teorema dei mandanti esterni. Tuttavia il pm nisseno Nico Gozzo confidava all’Unità di ieri una sua supposizione politica: “La vicenda della ‘cosiddetta’ trattativa coinvolge le basi della cosiddetta Seconda Repubblica”. Che vuol dire? Niente. Una considerazione strampalata ed estranea alla giurisdizione. Come l’idea di una infinita catena della “strategia della tensione” accarezzata dal procuratore nazionale Piero Grasso, confusionario quanto alla distinzione tra giustizia e storia, accertamento puntuale di responsabilità in ordine a reati penali e analisi dei fatti alla luce di fonti, documenti e interpretazioni complicati da decrittare, esposti alla soggettività che non ha spazio dentro l’applicazione garantita della legge. Zero significati, depistaggi non professionali rispetto al tracciato di un’indagine, amplificazione mediatica che danneggia la ricerca della verità processuale, in un caso, quello del magistrato assassinato nel luglio del 1992, che ha devastato il prestigio di chi aveva il dovere e la teorica capacità di accertamento e sanzione di un tremendo delitto di mafia.

    Sta di fatto che in ordinanze di custodia cautelare a carico di mafiosi già in carcere, i pm di Caltanissetta, diretti da Sergio Lari, dicono di avere accertato che Borsellino fu ucciso perché sapeva della “trattativa” stato-mafia ed era ad essa contrario. Una testimonianza di Agnese Borsellino li ha, fra altre cose, instradati in questa via nutrita anche di rivelazioni di collaboratori di giustizia o pentiti. E i magistrati, insieme con chi si fa (anche a loro insaputa) corifeo del loro punto di vista, e lo radicalizza per scopi politici e tribunizi, sospettano infedeltà ad alti livelli dell’Arma dei carabinieri, omissioni e reticenze di politici di ogni schieramento della Prima Repubblica, ministri della Giustizia e dell’Interno, parlamentari siciliani e nazionali. Non senza castigare con parole chiare la pupazzata del pataccaro in capo, Massimo Ciancimino, e la responsabilità del circo mediatico che lo ha accompagnato, tenuto per mano da un pezzo della procura di Palermo, in giro a calunniare pro domo sua (Santoro & C.).

    Bisogna andare alla radice del fatto, che è in discussione nel processo al generale Mori e altri eroi della giustizia che arrestarono Salvatore Riina sei mesi dopo l’omicidio Borsellino. Lo stato nella lotta contro la criminalità organizzata, cioè la criminalità familistico-politica chiamata mafia, procede con la giurisdizione pura, e con l’azione coordinata e riservata dei suoi servizi e corpi specializzati, alle dipendenze del potere esecutivo, sorvegliato dal Parlamento. In questo quadro il teorema della “cosiddetta trattativa”, per dirla con il pm Gozzo, è autocontraddittorio. L’esecutivo e i cacciatori di mafiosi hanno il diritto non normabile, nella zona grigia prevista fino a un certo punto dalla legge ma sempre perimetrata dalla prassi, di assumere informazioni e giocare al gatto con il topo con personalità del mondo mafioso passibili di offrire o vendere confidenze importanti, in un gioco di reciproche rassicurazioni sul filo del detto e del non detto (compresi i famosi papelli). L’importante è che si catturi Riina, che si catturi Provenzano, che la mafia venga duramente colpita, ciò che hanno fatto con metodi costituzionalmente garantiti i grandi investigatori degli anni Novanta. Una “vendetta” in nome della norma  della giurisdizione contro il potere esecutivo e i suoi uomini dovrebbe essere per definizione esclusa dal novero delle possibilità. E’ la lotta alla mafia, non un gioco procedurale, quello che era ed è in ballo con queste assurde propalazioni a sfondo politico che accompagnano l’indagine nissena.

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.