Prendere atto, reagire o sparire

Giuliano Ferrara

La manovra del governo tecnico è ingiudicabile. Invece è giudicabile e condannabile il comportamento suicida della politica italiana. La resa all'inevitabile delle classi dirigenti.
La manovra è concepita per rassicurare mercati finanziari e decisori europei del direttorio franco-tedesco, e corrisponde alla bisogna. Si può soltanto prenderne atto, per il punto a cui sono arrivate le cose. Insieme bisogna prendere atto che siamo un paese politicamente, civilmente e istituzionalmente minore. La nostra storia già parla per noi, ma l'attualità impone una tragica presa d'atto del fatto compiuto.

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    La manovra del governo tecnico è ingiudicabile. Invece è giudicabile e condannabile il comportamento suicida della politica italiana. La resa all'inevitabile delle classi dirigenti.
    La manovra è concepita per rassicurare mercati finanziari e decisori europei del direttorio franco-tedesco, e corrisponde alla bisogna. Si può soltanto prenderne atto, per il punto a cui sono arrivate le cose. Insieme bisogna prendere atto che siamo un paese politicamente, civilmente e istituzionalmente minore. La nostra storia già parla per noi, ma l'attualità impone una tragica presa d'atto del fatto compiuto. Non siamo autori del copione che recitiamo, per non tirare in ballo lo scomodo e grandiloquente concetto di “destino”. Non ci autogoverniamo più. Paghiamo la “colpa” del debito pubblico facendo i compiti a casa, sotto la sorveglianza del Preside, in condizioni di sospensione della democrazia politica. Seguiamo le prescrizioni delle potenze dominanti in Europa, scegliendo di farlo alle spalle di un elettorato giudicato inaffidabile e scartato di lato, e le seguiamo con poco potere di scambio, e i mercati finanziari ci premiano per la nostra ottemperanza al dettato, che solo un governo senza consenso popolare ed elettorale diretto poteva esprimere così bene, così compiutamente.

    Il fallimento della politica è radicale, assoluto, totale, senza riserve. La manovra di Monti realizza quel che la Germania di Angela Merkel e della Bundesbank voleva, e che è conseguenza della gestione lenta, particolaristica, contorta e interessata della crisi finanziaria dell'euro e dei suoi titoli pubblici, in particolare italiani (lo ammette lo stesso Romano Prodi). Con il debito di stato abbiamo sempre convissuto patologicamente, senza grandi e necessarie riforme ogni volta rinviate, ma pagatori liquidi e solventi, grande economia ricca, risparmiatrice, esportatrice e patrimonializzata nonostante la grave stagnazione del prodotto interno lordo; quello che è saltato è il debito messo alla prova di questo governo dell'euro, e della formidabile tenacia con cui è stata difesa una Banca centrale costruita per la maggior gloria del marco tedesco, organo di stabilizzazione dei prezzi e non di difesa attiva della finanza espressa nella moneta unica.
    La politica non ha costruito una strategia per la crescita partendo da una politica estera ed europea commisurata ai fatti, non ha avuto voce, si è autoparalizzata tra un governo arenato e un'opposizione incapace di alternativa, e i tecnici certo non potevano inventarsi autonomia e indipendenza di giudizio, non potevano improvvisare negoziati e far sentire la voce della terza potenza economica europea trasformata in un nano politico, come fu la Germania dopo la seconda guerra mondiale. Ora i partiti si lamentano, rosicano, cercano di affermare con banali luoghi comuni (ceto medio, equità) pezzetti di identità squartate dalla realtà, mentre si rincorrono opposizioni di minoranza sociale e territoriale legittime ma cieche. Sullo sfondo una Lega Nord tra profetismi, geopolitica ribalda (“L'Italia ha perso la guerra, la Padania ha vinto”) e realismi elettoralistici. I curatori fallimentari, intanto, si limitano a mandati impegnativi, corti e intensi, e magari li sanno assolvere decentemente e con il consenso dei fornitori e dei falliti, che godono nel titolare sui loro giornali, all'unisono, “DECRETO SALVA ITALIA”, su espressa indicazione del Preside.
    Dunque in pensione più tardi, erogazioni più leggere per tutti, rinunce ed equiparazioni di genere tra privato e pubblico, deindicizzazione degli assegni sopra i mille euro, insomma un misto di riforma e rapina. Una buona cosa l'abolizione dell'anzianità previdenziale intenibile, tutto sommato, ma una buona cosa costruita con una procedura umiliante, e con lacrime e svenevolezze sinistre. Una filastrocca devota: non-lo-fo-per-piacer-mio-ma-per-far-piacere-a-Dio.

    La manovra impone condizioni di maggiore uniformità sociale, abolizione di privilegi che si erano consolidati come modi e scelte di vita, e come funzionamento lasco ed elusivo del patto sociale. Ma non in un quadro di scelta di autogoverno, di ottimismo, di battaglia per lo sviluppo, bensì sotto dettatura: e si sente. La sua sostanza è una efficace e ingiusta e immediatamente recessiva scarica di nuove tasse sul patrimonio immobiliare e finanziario, c'è molta demagogia anticasta ed egualitaria su costi della politica e sul lusso anche presunto, e qualche ristorno fiscale pro crescita a favore dei profitti d'impresa (l'Irap), sperando che gli incentivi si trasformino in investimenti per il lavoro di donne e giovani, malgrado la scarsa propensione in merito accertata da autorevoli studiosi come il professor Gallo. Ciliegina sulla torta, ma nessuno lo noterà in un paese di liberali pavidi e di demagoghi sperimentati, la rottura del sacro patto fiscale con la riapertura a tradimento del dossier, peraltro liberamente offerto e contrattato, dello scudo fiscale.

    Colpisce l'ineluttabilità delle decisioni politiche, ratificate stavolta senza antagonismi istituzionali o politici o sociali dal Quirinale (il decreto), dal Parlamento (inciucini), dai sindacati (proteste, dall'esito anche imprevedibile, ma alla fine vedrete che tout va). Invece di ballare la finta sarabanda della maggioranza tripartita, quel che resta della politica si organizzi per darci nel 2013, sempre che si sopravviva come paese di democrazia matura e si voti regolarmente per un governo politico con sede nella capitale d'Italia e non a Francoforte, un progetto di riforma del sistema che metta in grado chi vince le elezioni di decidere, e chi le perde di esercitare il controllo e preparare l'alternativa. Nel quadro di una cessione delimitata di poteri sovrani a un'Unione da piegare alle leggi della democrazia, oltre la vecchia frontiera dell'oligarchia tecnocratica. Tutto il resto è pietoso mercatino di piccole consorterie.

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    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.