Voti e offensive militari
Diplomazia unilaterale e missili. L'inverno arabo piomba su Israele
I palestinesi di Ramallah procedono con la loro campagna di diplomazia unilaterale, i palestinesi di Gaza – o meglio: la leadership – sceglie di procedere con le bombe. Ieri a Parigi l'Unesco, il braccio culturale delle Nazioni Unite, ha riconosciuto in mezzo a un'ovazione generale dei delegati – 107 a favore, 14 contro tra cui gli americani, gli italiani si sono astenuti – lo stato di Palestina. Un passo che è solamente simbolico dal punto di vista politico ma di buon auspicio per la battaglia cominciata a settembre a New York dal leader dell'Anp, Abu Mazen, per avere un seggio alle Nazioni Unite.
Il Cairo, dal nostro inviato. I palestinesi di Ramallah procedono con la loro campagna di diplomazia unilaterale, i palestinesi di Gaza – o meglio: la leadership – sceglie di procedere con le bombe. Ieri a Parigi l'Unesco, il braccio culturale delle Nazioni Unite, ha riconosciuto in mezzo a un'ovazione generale dei delegati – 107 a favore, 14 contro tra cui gli americani, gli italiani si sono astenuti – lo stato di Palestina. Un passo che è solamente simbolico dal punto di vista politico ma di buon auspicio per la battaglia cominciata a settembre a New York dal leader dell'Anp, Abu Mazen, per avere un seggio alle Nazioni Unite. Gli Stati Uniti hanno interrotto immediatamente ogni finanziamento all'Unesco. A novembre, dice il dipartimento di stato, era prevista l'assegnazione di 60 milioni di dollari, ora è saltata. Washington finora garantiva circa il 22 per cento del bilancio dell'agenzia Unesco.
Nel sud di Israele e a Gaza è colpo su colpo. C'è la tentazione di passare in fretta sopra le ultime violenze, ma questa volta non si tratta del solito “Tensione a Gaza”. C'è una preoccupante evoluzione, c'è un salto di qualità e di gravità. Sabato scorso Ashdod, Ashkelon, Sderot, Kiryat Malachi, Ofakim, Gan Yavne e il distretto industriale di Eshkol hanno subito una pioggia di più di 35 missili Grad. Si è parlato di un cessate il fuoco negoziato dagli egiziani domenica – il Cairo ci tiene a essere considerato indispensabile come mediatore, non vuole perdere lo status che si è conquistato agli occhi di Washington partecipando ai negoziati per la liberazione di Gilad Shalit, come a dire “siamo utili come lo era Hosni Mubarak”. Poi ieri, in sole ventiquattr'ore, altri quaranta tra razzi e colpi di mortaio sono caduti sull'ampia fascia di centri abitati di Israele a meno di quaranta chilometri di distanza dalla Striscia. E' stata colpita persino Rehovot, che sulla carta è più in alto di Gerusalemme – la capitale è fuori gittata perché è più verso l'interno. Gli abitanti di Rehovot non si capacitavano che il rumore udito fosse proprio quello di una sirena antiaerea in allarme, “e non invece quello del vento”.
Si sono dovuti ricredere quando è scoppiato il primo missile Grad. In due giorni di bombardamenti un israeliano è morto, otto sono stati feriti, 45 sono stati ricoverati, illesi ma in stato di shock. Ieri sera è cominciata un'altra tregua ragnatela, di nuovo mediata dagli egiziani, che però può essere spazzata via da un colpo di vento. Almeno 20 missili Grad sono stati sparati in rapida successione da lanciatori multipli di fabbricazione sovietica montati su camion (che poi corrono via), come si è visto durante tutta la guerra di Libia appena conclusa. Questo tipo di lancio rende più difficile l'applicazione delle contromisure costosissime adottate dagli israeliani, come il sistema di intercettazione Iron Dome, Cupola di ferro, calcolare le traiettorie dei missili in arrivo e abbatterli tutti, e aumenta la probabilità di colpire con effetti mortali i centri abitati. “Una volta i Grad arrivavano uno alla volta, adesso ne arrivano quattro assieme”, dicono ai giornalisti gli abitanti di Ashkelon, una delle comunità più sotto tiro. Nel porto di Ashdod, i missili hanno colpito i piani più alti di due palazzi residenziali e il cortile vuoto di una scuola. Come se non bastasse il nuovo effetto grandine, il sistema Iron Dome non può già normalmente coprire la zona presa a bersaglio per intero, ne sono necessari di più. Al momento, le batterie in servizio devono essere spostate a seconda dell'area da proteggere, e si spreca tempo prezioso. La Cupola non è ancora a pieno regime, e un milione di israeliani si considera vulnerabile, considerato che il comandante della Difesa per il settore sud avverte che si è soltanto agli inizi: si prevede un'escalation di attacchi. La polizia ha alzato il livello di allarme nazionale all'ultimo gradino prima di quello più elevato.
Il legame tra la guerra di Libia e il riarmo di Gaza è forte. Già lo scorso giugno il corrispondente del quotidiano israeliano Maariv, Eli Bradstein, avvertiva dell'arrivo di centinaia di missili Grad contrabbandati dal teatro di guerra libico fino alla Striscia, attraverso i tunnel che passano sotto il confine egiziano. I servizi di sicurezza temono che siano arrivati anche missili Grad appartenenti a una nuova generazione, capaci di viaggiare per sessanta-settanta chilometri e quindi di arrivare a colpire anche Tel Aviv. La rincorsa metro per metro, città per città, degli ordigni lanciati dai gruppi palestinesi fino alla grande città della costa è la sola, tenace costante in questi anni di relazioni con Israele. Ora i saccheggi degli arsenali libici, che nei mesi scorsi sono stati paragonati dagli esperti alle svendite dei grandi magazzini per il generale clima di impunità in cui si sono svolti, promettono di guadagnare altro spazio alle squadre di lancio di Gaza.
A sparare in questi giorni sono gli uomini del Jihad islamico, formazione estremista che sulla carta non è legata a Hamas, ma è difficile non credere che nella Striscia – dove Hamas non ha esitato a uccidere i gruppi salafiti che diminuivano il suo potere – possa agire in autonomia, senza prima avere ottenuto un via libera. Forse a Hamas, in questo momento delicato in cui contende il primato di popolarità fra i palestinesi ad Abu Mazen e alla leadership di Ramallah, conviene lasciare le azioni di guerra agli altri, per non assumersi la responsabilità dell'inevitabile e pesante reazione israeliana (soprattutto nei giorni in cui Abu Mazen riesce a far riconoscere lo stato di Palestina dall'Unesco, ennesima dimostrazione di un'iniziativa raffinata ed efficace, che Israele non a caso definisce “una tragedia”). L'aviazione israeliana ha bombardato Gaza, colpendo prima un campo d'addestramento del Jihad islamico e poi prendendo di mira le squadre di lanciatori, uccidendo dodici persone.
Le lacune dell'Iron Dome. I messaggi contraddittori lanciati dal governo e dall'esercito – domenica il premier Benjamin Netanyahu ha detto: “Non c'è nessun cessate il fuoco”, mentre i generali assicuravano la popolazione sull'esistenza di una tregua che avrebbe retto. La sensazione che siano i palestinesi a decidere quando e quanto bombardare. Sono tutti fattori che stanno scavando un solco tra gli israeliani sotto tiro e l'esercito, segno di un più vasto malessere che altrove, nelle colonie della Cisgiordania, si è trasformato in diffidenza verso un esercito che è considerato troppo impastoiato dalle necessità diplomatiche. L'ordine di tenere aperte le scuole, ieri, è stato disatteso. Il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, ha parlato della necessità di “rovesciare il regime di Hamas a Gaza”. Tra Lieberman e Netanyahu, soprattutto dalla liberazione di Gilad Shalit in poi (il ministro ha votato no allo scambio di prigionieri, secondo le ricostruzioni è stato un Consiglio dei ministri drammatico), è un periodo di frizioni. Ieri la figuraccia del governo è passata per l'Egitto. Il Cairo aveva assicurato di essere riuscito a ottenere una tregua dal Jihad islamico, salvo poi essere smentito dalle ondate di razzi.
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