La chiesa, l'amore e l'aborto

Giuliano Ferrara

Il Papa ha indetto l'anno della fede, dopo l'amore e la carità nella verità (seguirà un'enciclica). Benedetto XVI sa tenere aperti tutti i fronti della sua magnifica intelligenza delle cose. E' pensante in un senso molto forte e filosofico, ragiona laicamente di diritto naturale e stato liberale davanti al Bundestag di Berlino, ma sa che la preghiera e la fede non sono un ripiego, sono l'essenza stessa della sua chiesa, sono per così dire il luogo stesso della redenzione in cammino, della storia della salvezza che appartiene alla comunità cristiana moderna e al soggetto moderno radicalizzato nella sua libertà (Erasmo e Lutero).

    Il Papa ha indetto l'anno della fede, dopo l'amore e la carità nella verità (seguirà un'enciclica). Benedetto XVI sa tenere aperti tutti i fronti della sua magnifica intelligenza delle cose. E' pensante in un senso molto forte e filosofico, ragiona laicamente di diritto naturale e stato liberale davanti al Bundestag di Berlino, ma sa che la preghiera e la fede non sono un ripiego, sono l'essenza stessa della sua chiesa, sono per così dire il luogo stesso della redenzione in cammino, della storia della salvezza che appartiene alla comunità cristiana moderna e al soggetto moderno radicalizzato nella sua libertà (Erasmo e Lutero).

    Di fronte al teologo e Pontefice bi-fronte, che tiene aperte due linee d'azione e contemplazione strette in un solo nodo di cultura e di credo, noi laici non credenti ci sentiamo spaesati. Lusingati sempre da tanta fervente e responsabile attenzione ai problemi del mondo, e perfino incantati dall'uso di strumenti che superano la dimensione materiale e naturale e razionale della vita, ma anche lasciati a mezza strada. Quella chiesa che è amore, fede, speranza e che ospita la discussione con i gentili, nel cortile prospiciente il tempio, a un certo punto rilutta, esita, si ferma davanti alla pura logica dell'essere, all'etica della ragione, che giudica radicalmente insufficiente. Qui sta la questione dell'aborto.
    L'obiezione cattolica al movimento pro life, alle sue ragioni laicamente intese, non apocalittiche, non integraliste, è in fondo la più insidiosa. La sordità morale del moderno verso la morte in pancia si rimuove con l'amore, questo il vero messaggio subliminale, che supera con le opere, splendide opere, la nostra idea di diritto e di morale e di politica. Quando laicizzammo e politicizzammo fino alle estreme conseguenze la questione della manipolazione della vita umana, ce ne accorgemmo. L'interlocutore più difficile non era “la donna”, che sa come stanno le cose e soffre dell'indicibilità del problema, della sua oggettivazione impossibile per un modello di vita più forte della vita stessa; le ragazze che ci hanno tirato il prezzemolo e gli sciagurati che ci hanno linciato nelle piazze odiavano la verità che conoscevano confusamente, e deformavano per ideologia, per rimozione pura, le nostre idee, sapendo intuitivamente che erano infinitamente giuste, pericolose per un fenomeno di abissale ingiustizia. La chiesa, anche quella militante che si dà da fare contro l'aborto operosamente e minuziosamente, ma stenta ad assumerlo come programma laico di intervento nello spazio pubblico (Onu, governi, sistema sanitario, coscienza culturale diffusa, pulpito, comizio), è il vero inciampo, il vero sacrosanto scandalo sulla via dell'estirpazione dell'omicidio seriale dalla nostra comune cultura di morte.

    Nell'amore c'è una comprensione del peccato che i nostri imperativi categorici non contemplano, non trovano come parte del pensiero, della logica, della laica e non credente opposizione al martirio dei bambini e delle bambine. La donna senz'ombra del nostro ambiente novecentesco e post novecentesco, l'infertilità programmata come procreazione libera e autorizzazione signorile sul corpo proprio, fino a insignorirsi di un corpo altrui, è una figura troppo clamorosa della secolarizzazione, del distacco impenitente dalla nozione di peccato, perché la chiesa non la consideri come umanità da redimere nel tempo lungo della preghiera e della conversione piuttosto che come situazione da correggere nel tempo legislativo e politico.

    Ora, dopo la sentenza europea
    che libera giuridicamente la tutela dell'embrione da una succosa ma banale ipoteca commerciale, e autorizza la comparazione morale e giuridica tra un embrione, da salvaguardare quando gli scopi siano di ricerca, e un feto o bambino non nato ma già nutrito e accudito, da sacrificare quando l'orizzonte sia quello della libertà femminile e maschile di controllare la riproduzione, tutto è tragicamente più chiaro. Il giornale dei vescovi italiani, Avvenire, è rimasto come sconcertato, e ha scelto la strada minimalista di collegare la sentenza e l'aborto negli ultimi blandi paragrafi dei suoi editoriali (perché non si può negare quel che è evidente), mentre fa il suo dovere di battaglia bioetica nelle forme prudenti dello stare al punto, del limitare le conseguenze da tirare. Lo stesso fa l'Osservatore Romano, il giornale del Papa felicemente ma ambiguamente diviso tra magistero, curia e cultura: un articolo del professor Pessina, in prima pagina, analizza la sentenza come se fosse soltanto una sentenza. Lucidamente, ma senza tirare le conseguenze.

    Per chi ama, le conseguenze dell'amore
    sono un oggetto pericoloso. Anche dell'amore cristiano. E così, tra colloqui in cattedrale e disponibilità politiche e civili di vario conio a un'evangelizzazione che passi sopra la cultura del vangelo, ma ricca di buone intenzioni, si svuota di significato la presenza di una minoranza laica antiabortista, pro life lungo tutti i fronti di quella battaglia, e assume valore l'incontro con un mondo imperfetto ma trattabile secondo i criteri, nobili ed entro certi limiti comprensibili, del clero e dell'amministrazione di una fede difficile e multiversa.

    Per chi come noi pensa che il rigetto della distruzione della vita umana sia un dogma razionale, l'oggettivazione di una realtà che invece vive soggettivamente rovesciata, c'è la malinconica considerazione per quello che avrebbe potuto essere e non è stato. E forse non sarà mai. Continueremo a pensare quel che pensiamo: che l'aborto è un omicidio seriale, che di questo inferno logico e dei suoi correlati di ingegneria eugenetica un mondo morale consapevole di sé deve liberarsi non attraverso la punizione, tantomeno delle donne, ma attraverso la cultura e la guerra dello spirito, ma dovremo farlo convertendo (missione quasi impossibile) la chiesa moderna all'etica razionale, a un metodo che oltre la dimensione inesausta dell'amore, si radica nella verità della ragione, che di amore e fede è chiamata a dar conto.

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.