Chiedo scusa, avvocato Bazoli
Discutendo del film di Olmi, che è un buon uomo di spiritualità cristiana per me ingiudicabile, Giovanni Bazoli ripropone la questione dell'accoglienza. Lo fa sul Corriere e su Avvenire, interloquendo con Marina Corradi. Ermanno Olmi, il vecchio e venerato maestro, racconta di una chiesa senza più funzioni di culto, integralmente secolarizzata, che diventa un luogo di accoglienza per i più deboli, così si dice, gli immigrati.
Discutendo del film di Olmi, che è un buon uomo di spiritualità cristiana per me ingiudicabile, Giovanni Bazoli ripropone la questione dell'accoglienza. Lo fa sul Corriere e su Avvenire, interloquendo con Marina Corradi. Ermanno Olmi, il vecchio e venerato maestro, racconta di una chiesa senza più funzioni di culto, integralmente secolarizzata, che diventa un luogo di accoglienza per i più deboli, così si dice, gli immigrati. Senza fede, massime senza una fede attiva e sacramentalmente amministrata dalla chiesa di Gesù e dal suo magistero, si possono fare buone opere, e Cristo ne è comunque coinvolto. Bazoli, rifondatore della prima banca italiana e nume della finanza bianca bresciana e lombarda, obietta con mansueto discernimento che insomma sì, può essere vero, ma fede e carità appartengono, con la speranza, a una filiera di virtù le quali hanno qualcosa in comune. Sembra di capire dalle sue parole di paolino, nel senso di Paolo VI, che decultualizzare la chiesa per essere buoni cristiani non è la soluzione esclusiva possibile o forse non è proprio la soluzione.
Chi ami il culto e la chiesa e la fede, e magari anche la carità e la speranza, ma in una dimensione laica e non credente, a questo punto può solo richiamare i dialoganti alla necessità di riequilibrare il campo dell'interlocuzione. Non si capisce bene perché la teoria dell'accoglienza, anche in forme fervorose o alla moda come quelle che attraversano il linguaggio cinematografico contemporaneo (non si parla di Olmi, da tempo magisteriale in questo tipo di cose, semmai di Crialese e altri), non si applichi alla più scandalosa e culturalmente significativa questione del XXI secolo: il fermo annientatore, moralmente sordo, imposto ai migranti che chiedono un visto con il parto, che vogliono semplicemente vivere ed essere accuditi come prodotto dell'amore. Sappiamo di che si tratta, della Humanae vitae e successivi eventi, le leggi o le norme varie di regolamentazione dell'aborto anni Settanta, che ridimensionano l'aborto clandestino ma solo per dichiarare la resa di civiltà di fronte al fenomeno dell'aborto in sé. Specialmente crudele è la deriva bioingegneristica, che permette di estendere e pianificare su vasta scala l'aborto come soluzione pubblica, spesso suggerita o imposta, dalle politiche asiatiche del figlio unico, con il sacrificio di centinaia di milioni di bambine. La selezione della specie sotto forma di medicalizzazione della gestazione e della nascita, fino al figlio à la carte. La fabbricazione della vita, l'insignorirsi della vita, manipolandola e violentandola, abolendo il diverso e libero sviluppo della creatura umana.
Di queste cose importanti si è occupato qualche film di Hollywood come "Juno", un piccolo sconvolgente film rumeno, e poche altre voci. Da che cosa viene questa timidezza cattolica italiana, a parte le mille imprese filantropiche e di servizio dei movimenti pro life, nel fronteggiare l'arduo tema dell'accoglienza delle accoglienze? La cultura antinatalista ed eugenista non è forse altrettanto se non più preoccupante di contraddizioni nel rapporto con migrazioni adulte per le quali gli stati dispongono misure efficaci e meno efficaci, ma costanti, e i popoli mostrano paure e solidarietà, ma pur sempre in un contesto di politiche pubbliche razionali. E l'irrazionalità intima, coscienziale, culturale, della mancata accoglienza in nome dei diritti riproduttivi della donna, mistificazione ideologica sofisticata, non interessano gli intellettuali europei come Bazoli e Olmi?


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