E' possibile un giudizio equanime sul berlusconismo?
Se c'è ancora, e dovrebbe esserci, una sinistra italiana non televisiva e non manettara, questa sinistra dovrebbe porsi da subito il problema di un giudizio equanime sulla parabola di Berlusconi nella vicenda nazionale.
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Se c'è ancora, e dovrebbe esserci, una sinistra italiana non televisiva e non manettara, questa sinistra dovrebbe porsi da subito il problema di un giudizio equanime sulla parabola di Berlusconi nella vicenda nazionale. Non si può pretendere che il combattimento venga sospeso, questo è chiaro, ma che venga illuminato per evitare poi vent'anni di penose menzogne incrociate, come avvenne dopo il 1945, questo sì. Non è questa la funzione di chi lavora nel campo della ricerca intellettuale? Tra i soggetti di questa impresa discutidora dovrebbero comprendersi anche quelli debenedettiani, se solo non si comportassero come tribune arcigne e severamente uniformate a un dettato editoriale e politico che non prevede generosa flessibilità mentale, vera tolleranza. E questo sarebbe propriamente il mestiere delle culture liberali incarnate dal Corriere e dalla Stampa, almeno quando non premono le urgenze di una informazione politica nervosa e spiccia.
Per fare un esempio, il saggio di Franco Cassano, di cui si è molto parlato ma con una strana sordina sul suo nucleo essenziale, è un contributo in questa direzione. Come sanno i lettori del Foglio, il sociologo ha scritto un pamphlet sulla categoria di “umiltà del male”, sostenendo che dal berlusconismo e in genere da posizioni conservatrici radicate nella società di massa, secondo un punto di vista di sinistra ispirato a concetti-guida come la fraternità e l'emancipazione, non si deve uscire con uno spirito di elite, di elezione riservata ai pochi detentori di una morale assoluta, distante dai caratteri antropologici prevalenti, dalle debolezze dell'uomo comune, dalle sue paure, richieste di tutela. La sua critica del narcisismo etico è quanto di più sottile e appuntito sia stato fino ad ora pensato a sinistra, a me pare, a diciassette anni dalla sorpresa del 1994, anno della prima vittoria di Berlusconi. Per dannare Berlusconi ci sono i comizi, le intercettazioni a tradimento e i report dell'Economist, e non è poco, ma per capirlo ci vuole uno sforzo in più, non impossibile.
Anche la pubblicistica politica minimalista di un Francesco Piccolo, divertente e istruttiva, serve alla bisogna. Piccolo, che è sceneggiatore di Moretti e scrittore benevolente e sincero, illumina il linguaggio politico della sinistra, sulle colonne dell'Unità e con il suo libretto sulla felicità trovabile, a portata di mano perfino nel fantasmatico, terribile regime italiano. E' un grande antidoto potenziale, e con lui potrebbe esserlo un Michele Serra in versione meno oracolare, moralista e risentita, contro le funebri e carcerarie intemerate della cultura di Micromega e del Fatto quotidiano. La teoria di Piccolo, esposta senza problemi sul giornale ipermilitante di Concita De Gregorio, è che bisogna vincere le elezioni, da sinistra, e che per vincere occorre ammettere che le possa vincere la destra: un pensiero non così paradossale, pianamente democratico ma non banale, non savianeo, forse morettiano (habemus papam?), non incompatibile con le disobbedienze girotondine delle origini, ma distante mille miglia dall'idea che si debba “liberare” l'Italia da una qualche oscura oppressione tirannica (idea coltivata invece dalla Spinelli, dallo sfortunato Asor Rosa e da molte voci del guppo Repubblica).
Quando arriverà il momento dell'alternanza, il cambio dovrà essere – questa la faccenda che mi interessa – diverso dal paradigma storico fascismo-antifascismo. Non per evitare un piazzale Loreto giudiziario come chiusura del ciclo berlusconiano, il che naturalmente è auspicabile se non ci si volgia coprire di vergogna. L'Italia non è alla rovina, i governi del postberlusconismo faranno molte cose simili a quelle fatte dai governi Berlusconi, il ferro e il fuoco non fanno più parte (si spera) del nostro orizzonte storico, e nessuno metterà fuori campo o fuori di un nuovo arco costituzionale le forze organizzate e le idee del centrodestra italiano. Il problema è di evitare la ripetizione pigra, anzi inerte, di uno schema culturale vecchio, che ha caratterizzato la storia della Repubblica imponendo a un paio di generazioni di italiani la solfa della lunga fase di retorica antiregime, la censura culturale sulla realtà storica del fascismo come “autobiografia della nazione”, la cancellazione delle tracce (come direbbe Battista) da parte delle classi dirigenti variamente compromesse con il passato, e dall'altra parte la trasformazione del geniale conservatorismo e cinismo di un Leo Longanesi in qualunquismo, tutto questo degenerare producendosi in quella cappa di ideologismo da guerra fredda che fu rotta soltanto con la nascita, equivoci compresi, del fenomeno revisionista, specie nelle sue versioni liberali e critiche, non revansciste. Aspettare un nuovo Renzo De Felice per dire quel che tutti sappiamo già da ora sarebbe peggio che una perdita di tempo.
Togliatti, che non era uno stupido e sapeva di storia e di cultura, si preoccupò già nella clandestinità di diffondere sul fascismo un giudizio non inarticolato e molto realista, nelle lezioni che tenne da Radio Mosca. E chiese alla società italiana di riflettere, a poco tempo dalla sua scomparsa e ancora nel fuoco della battaglia classista e di sistema che divideva l'Italia dei partiti nella guerra fredda, se fosse possibile un giudizio equanime sull'opera di Alcide De Gasperi. A me la libertà intellettuale sembra un arnese utile a tutti. Perché non ci portiamo avanti con il lavoro, invece di aspettare poi vent'anni il momento in cui la cultura italiana sia finalmente autorizzata a dire su questi anni cruciali verità, magari ipotetiche e destinate per molti a restare controverse, che però sfondino un regime di censura ideologica?
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