Domenica, benedetta domenica
Apologia dell'America che celebra un atto di giustizia
La prestazione degli americani nei due secoli abitati dalle ultime generazioni è epica. Non c'è traccia di minimalismo in un presidente nero e liberal che annuncia con parole ispirate alla religione e alla Costituzione americana la vittoria in battaglia contro il nemico assoluto, contro il leader radicale islamico responsabile dell'11 settembre. La cattura ed esecuzione di Osama bin Laden, preso come un latitante di mafia in un paese straniero che lo proteggeva, e sepolto in mare mentre l'America fa festa, ha una potenza simbolica eccezionale, al di là delle conseguenze strategiche oggetto delle nostre analisi.
La prestazione degli americani nei due secoli abitati dalle ultime generazioni è epica. Non c'è traccia di minimalismo in un presidente nero e liberal che annuncia con parole ispirate alla religione e alla Costituzione americana la vittoria in battaglia contro il nemico assoluto, contro il leader radicale islamico responsabile dell'11 settembre. La cattura ed esecuzione di Osama bin Laden, preso come un latitante di mafia in un paese straniero che lo proteggeva, e sepolto in mare mentre l'America fa festa, ha una potenza simbolica eccezionale, al di là delle conseguenze strategiche oggetto delle nostre analisi. Quello di Obama in morte del nemico è stato un glorioso discorso della bandiera, quella bandiera che sta per la Repubblica, “one nation under God, indivisible, with liberty and justice for all” (una nazione sotto Dio, indivisibile, che garantisce libertà e giustizia per tutti).
Quel paese fatale ha vinto tre guerre in Europa nel Novecento, fino al collasso dell'ultimo totalitarismo; ha costruito un modello controverso di società aperta e cristianamente ispirata, che non ha accettabili alternative in occidente; ha incantato ed eccitato il mondo moderno e postmoderno, dividendolo tra amici e nemici in una logica imperiale che non prevede conquista e occupazione di territori altrui e che è fondata sul sacrificio personale dei combattenti, su una macchina di guerra e di intelligence che non ha rivali, su una libertà di iniziativa economica e sociale priva di riscontri nel resto del mondo; ha inaugurato questo secolo con una reazione calma e orgogliosa alla sfida di civiltà posta dall'islam politico che dura ancora e attraversa, oltre la vendetta, oltre la giustizia retributiva, oltre la tutela della sicurezza e dell'ordine mondiale fondato su libertà e democrazia costituzionale, la vita di tutti noi.
Per dieci anni il capo dell'organizzazione terrorista che aveva insanguinato New York e Washington, uccidendo in nome di Dio quasi tremila americani di tutte le origini etniche e di tutte le fedi al culmine di una lunga campagna di attentati in cui erano cadute centinaia di vittime in giro per il mondo, tutti simboli di carne del nemico crociato ed ebreo, ha provato senza riuscirci a ripetere l'evento. La “famiglia americana” evocata da Barack Hussein Obama ha fatto il suo dovere con George W. Bush e con il suo successore, che ha sviluppato e proseguito la strategia del liberatore di Afghanistan e Iraq con l'aiuto dei suoi uomini, il segretario alla Difesa Robert Gates e il generale David Petraeus, delle sue tecniche e strategie politico-giudiziarie, a partire da Guantanamo, e del suo spirito così ben rappresentato dal contegno riservato dell'ex presidente e del suo ex ministro della difesa Donald Rumsfeld. Il cambio nella retorica politica, perfettamente legittimo in una grande democrazia della parola, non ha modificato di una virgola il comportamento dell'America come comunità e stato, come Amministrazione e soggetto politico imperiale. Le varianti o le incertezze nella politica estera sono una cosa, ma il bisogno di giustizia fa parte dei principi autoevidenti su cui è fondata la nazione americana dall'epoca dei suoi padri costituzionali.
Catturare e giustiziare il “most wanted” a dieci anni dall'11 settembre non sarebbe stato possibile senza le radici americane: una rivoluzione repubblicana ispirata al Creatore e ai principi giusnaturalistici non negoziabili del diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Un modello di politica e di società pieno di difetti, ma che non prevede derive totalitarie, antisemitismo dispiegato, sudditanza ad altro che non sia la legge nel principio dell'autogoverno. Bin Laden, ucciso a 54 anni come un criminale irriducibile, non era un nemico qualsiasi, era anche lui, come sono i presidenti americani, un leader politico e religioso pieno di fascino e di energia spirituale per i popoli che lo hanno seguito in effigie e per i seguaci che hanno reso possibile la realizzazione della prima fase del suo disegno fanatico. Ha combattuto contro l'Unione sovietica, negli anni Ottanta, con l'appoggio geopolitico dell'occidente e degli stessi americani, e poi ha cambiato la mira, puntando sull'ideale di un califfato islamico e sul risveglio purista, wahabita, dei popoli di fede musulmana. Contro Israele, contro l'America, contro i crociati cristiani d'occidente, in parallelo con la rivoluzione iraniana sciita, profittando della decomposizione degli stati canaglia o degli stati musulmani falliti, Osama ha portato guerra, lutto e distruzione ovunque gli sia riuscito di farlo. La sua è una grandiosa leggenda nera, di proporzioni mitiche. Le sue parole, la sua epica nazionale islamica, erano e restano oltre la sua morte una minaccia esistenziale per il nostro modo di concepire la società e la vita. Diverse forme di purismo, tra le quali quella dei Fratelli musulmani, navigano anche nei movimenti di liberazione dalle oligarchie arabo-islamiche corrotte. Il fatto che Osama abbia perso la sua corsa personale contro il cavallo che aveva definito “debole”, l'occidente secolarizzato, è un “clamoroso trionfo”, come ha detto il premier israeliano, ma non ha alcunché di definitivo, non porta ancora la pace e la sicurezza, perché la sensibilità jihadista è parte di un paesaggio storico e simbolico in cui Bin Laden torreggiava, ma che la sua morte in battaglia offusca senza cancellarlo.
C'è ancora molto da fare. Per questo è bene ricordare che qui, nella retrovia europea della prima grande guerra del XXI secolo, le divisioni sono state profonde, e ha vacillato in molti la necessaria volontà di battersi. Le ragioni di sfiducia nella faccia che di sé offrono l'occidente e il suo fulcro euro-atlantico sono numerose. L'imperfezione e la infinita corregibilità sono il vero crisma del nostro modello sociale. La forza della mobilitazione culturale e politica contro il jihadismo, in difesa di una identità fragile e contestata, risiede nella sua libertà di tono, nella sua intelligenza profonda delle cose, nella sua capacità di accettare critiche e antagonismi come elemento strutturale di un modo di pensare e di agire. L'Italia di Berlusconi in questi dieci anni ha dato una mano agli americani e a Israele sotto attacco. Siamo rimasti un paese libero e dissonante, ciascuno con la propria voce, ma abbiamo fatto il nostro dovere. Non si festeggia una sparatoria, si celebra bensì un consapevole atto di giustizia.


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