Idee e numeri per “vendere, vendere, vendere” un po' di stato

Michele Arnese

Vendere, vendere, vendere. Vendere immobili pubblici per ridurre il debito statale. Vendere palazzi inutili per investire in reti e infrastrutture che servono. Vendere caserme inutilizzate per trovare risorse da utilizzare per la crescita, lo sviluppo e magari per la cultura. Non è soltanto una provocazione quella del Foglio, che ieri – nell'editoriale dell'Elefantino – ha invitato tremontianamente il ministro dell'Economia a “vendere per allargare il settore privato e ridimensionare l'abnorme spazio del pubblico”.

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    Vendere, vendere, vendere. Vendere immobili pubblici per ridurre il debito statale. Vendere palazzi inutili per investire in reti e infrastrutture che servono. Vendere caserme inutilizzate per trovare risorse da utilizzare per la crescita, lo sviluppo e magari per la cultura. Non è soltanto una provocazione quella del Foglio, che – nell'editoriale dell'Elefantino – ha invitato tremontianamente il ministro dell'Economia a “vendere per allargare il settore privato e ridimensionare l'abnorme spazio del pubblico”. Una soluzione prospettata da tempo, ad esempio, dall'economista e banchiere Paolo Savona, oltre a quella, dal profilo più internazionale, con cui Savona consiglia di parcheggiare parte dei debiti pubblici presso il Fmi, denominandoli in diritti speciali di prelievo, concedendo ai governi di rimborsarli in tempi e a condizioni accettabili.

    Chi sostiene benefici effetti sulla crescita da un piano di dismissione del patrimonio pubblico, quindi non solo di immobili, è Luca Ricolfi, sociologo e docente di Analisi dei dati all'Università di Torino, che ieri sul quotidiano la Stampa ha scritto: “Privatizzazioni e dismissioni sono sostanzialmente ferme dal 2006, e questo a dispetto dell'impegno a farle ripartire sottoscritto nel programma elettorale del centrodestra”. Il patrimonio pubblico, secondo i calcoli di Ricolfi, è dello stesso ordine di grandezza del debito (1.800 miliardi). Venderne una parte non basterebbe a portarci al 60 per cento del pil, come vorrebbe il nuovo Patto europeo di stabilità in fieri, ma “scendere sotto il 100 per cento sarebbe già un grande risultato”. La proposta di Ricolfi, che parla di quote collocabili sul mercato, ricalca per diversi aspetti l'idea lanciata nel 2005 dall'ex ministro Giuseppe Guarino, che propose una superholding in cui far confluire beni statali e società pubbliche da quotare in Borsa, incassando almeno 450 miliardi.

    Sui tempi lunghi di Ricolfi, che parla di un piano ventennale, concorda con qualche distinguo l'economista Edoardo Reviglio, capo ufficio studi della Cdp (Cassa depositi e prestiti), e in passato direttore delle strategie di Patrimonio spa, la società voluta da Giulio Tremonti per valorizzare e dismettere gli immobili statali: “A differenza di altri più ottimisti di me – dice Reviglio al Foglio – dopo aver studiato e osservato il patrimonio nelle sue varie sfaccettature per una decina d'anni, sono arrivato alla conclusione che il riordino del patrimonio sia una grande opportunità per il territorio, e più in generale per lo sviluppo del paese. Tuttavia, considerata la natura complessa, dispersa e granulosa, e le rigidità giuridiche e amministrative, la sua dismissione non può rappresentare la soluzione alla riduzione del debito pubblico in tempi brevi”. Secondo Reviglio, “può dare un contributo (pari allo 0,2-0,4 di pil all'anno per i prossimi due/tre decenni), può contribuire a finanziare investimenti secondo il ‘principio di sostituzione', ovvero dismetto un asset che non serve e con i proventi ne costruisco uno che serve”. Va ricordato, inoltre, che il patrimonio non è fatto solo di immobili ma anche di partecipazioni locali, di crediti, di concessioni e di reti e infrastrutture: “Alcune di queste possono e devono dare maggiori redditi (sul fronte dei flussi) altre possono invece essere privatizzate”. Conclude Reviglio: “Nessun miracolo ma piuttosto un'azione graduale di riordino. L'avvio di un grande processo che durerà decenni”.

    Quindi non è esatto sostenere che le entrate da dismissioni pubbliche possono essere utilizzate solo per diminuire l'indebitamento statale. Infatti le regole Eurostat lasciano liberi i governi di usare i proventi di attività fisse anche per spesa corrente secondo il principio che la vendita di un'attività fissa è un investimento netto negativo e quindi può essere usato per spesa corrente. Ma dalla Finanziaria del 2006 è stato previsto che i proventi vengano usati per ridurre il debito anche a livello centrale, come stabilito dal Patto di stabilità interno per regioni ed enti locali. Quindi, c'è la possibilità di utilizzare gli introiti per investimenti in scuole, ospedali, ponti, i cosiddetti investimenti fissi. Ma dopo la serie di cartolarizzazioni, di ispirazione vischiana e di realizzazione tremontiana, c'è ancora spazio per alienazioni di immobili pubblici? A questa domanda risponde positivamente un saggio degli economisti Emilio Barucci e Federico Pierobon, “Stato e mercato nella Seconda Repubblica. Dalle privatizzazioni alla crisi finanziaria” (il Mulino) che sarà presentato domani in un seminario a porte chiuse al Tesoro: “Le operazioni di cartolarizzazione hanno provveduto a dismettere la parte del patrimonio immobiliare che poteva essere collocata sul mercato facilmente, gli immobili rimasti in possesso dello stato non si prestano per queste operazioni”. Agli scettici, anche all'interno del governo, gli autori del saggio dicono invece che “nonostante sia stato oggetto di numerose operazioni di dismissione nel corso degli ultimi dieci anni, il patrimonio immobiliare risulta tuttora cospicuo”.

    Sui numeri, comunque, non c'è identità di vedute. Barucci e Pierobon, sulla base di uno studio di Reviglio e di aggiornamenti della Ragioneria generale dello stato e dell'Agenzia del demanio, stimano il valore nominale degli attivi immobiliari dello stato in 194 miliardi di euro. Ma il valore di mercato è ben maggiore e di sicuro superiore a 400 miliardi di euro, circa un quarto del prodotto interno lordo italiano. “Il dato – aggiungono Barucci e Pierobon – non comprende molti immobili per i quali non è disponibile un inventario completo (parte del demanio militare e quelli ubicati all'estero) o è difficile effettuare una valutazione (musei e monumenti)”. E' più cauto Gianfranco Polillo, consigliere economico del gruppo pdl alla Camera: dopo le grandi dismissioni degli enti previdenziali e con il federalismo demaniale, a disposizione dello stato resta ben poco per operazioni d'impatto. Eccetto, aggiunge Polillo, un lease-back delle sedi ministeriali, ma Bruxelles considera debito anche gli affitti che dovrebbero essere pagati per le sedi prese in locazione dopo essere state vendute.

    Una conferma del quadro nebuloso arriva da una recente audizione parlamentare dei vertici dell'Agenzia del demanio, che dipende dal ministero dell'Economia: “La frammentazione del patrimonio dello stato”, fra immobili delle amministrazioni centrali, quota del demanio storico-artistico e una pluralità di amministrazioni che gestiscono svariati beni, “è tale – ha detto il direttore dell'Agenzia del demanio, Maurizio Prato, alla commissione parlamentare sull'Attuazione del federalismo – che il risultato è uno solo: lo stato, ad oggi, non sa esattamente di che cosa è proprietario”.

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