Tutte pazze per Patrick
Quando per la prima volta lo vedemmo alzarsi di scatto e, tirando nervosamente la mascella come solo lui sapeva fare, sentenziare che “Nessuno mette Baby in un angolo”, già lo amavamo. Eravamo tutte follemente innamorate di Patrick Swayze, alias Johnny il Maestro di ballo strafigo ma sensibile di Dirty Dancing
Quando per la prima volta lo vedemmo alzarsi di scatto e, tirando nervosamente la mascella come solo lui sapeva fare, sentenziare che “Nessuno mette Baby in un angolo”, già lo amavamo. Eravamo tutte follemente innamorate di Patrick Swayze, alias Johnny il Maestro di ballo strafigo ma sensibile di Dirty Dancing, forse già dalla scena in cui arrivava con il giubbotto di pelle buttato sulla spalla e gli occhiali scuri. Per tutte le bambine e adolescenti degli anni Novanta i cui genitori sfortunatamente parlavano inglese (e quindi capivano la lussuria nascosta nel titolo, ma soltanto in quello) Dirty Dancing era una cassetta videoregistrata da Rete4 che si divorava il pomeriggio di nascosto in un consesso semimistico di amiche e cugine. Per un attimo quel nastro consumato – che di solito saltava sul momento clou del salto di lei dal palco, visto e rivisto a loop – sapeva farci dimenticare le trecce e le magliette con gli orsacchiotti, e pure il fatto che quello carino dell'altra classe ci considerava trasparenti. A qualcuna faceva perfino guardare con occhi nuovi le altrimenti noiosissime lezioni di danza classica che popolavano forzatamente il nostro tempo libero.
Per tutte le Baby del mondo, obbligate ad andare in vacanza con i genitori in villaggi vacanze per famiglie, esisteva un Johnny, da qualche parte.
Una volta raggiunto il liceo lo amavamo in versione fantasma innamorato, il divo di Ghost che prima riusciva a rendere sexy un ammasso di creta (era anche merito di Demi Moore dai corti capelli, ammettiamolo) e poi restava nel mondo a proteggere la sua bella anche dopo la morte. Era l'uomo di successo che non scorda l'ironia, l'amico tradito, il fidanzato scontroso ma devoto per l'eternità. E non importava che nel frattempo lui avesse avuto problemi di alcol e droga, per noi lui significava soltanto balli e baci appassionati. Gli perdonammo anche le scazzottate nel Duro del Road House, perché aveva un cuore tenero. Eravamo certe che il protagonista della Città della gioia, che se ne andava in giro per l'India a curare i malati di lebbra, non avrebbe mai potuto avere un altro volto. Quando scassinava banche con la maschera da presidente e poi si tuffava fra le onde dell'oceano a cavalcioni di un surf in Point Break, le sue rughe ce lo facevano sembrare solo più affascinante. Giocava al selvaggio indomito, ma nella vita si era scelto una donna, Lisa, una sola, lui che avrebbe potuto averci tutte. I giornali raccontavano, una dopo l'altra, le storie tragiche che si abbattevano sulla sua vita, ma noi ci sentivamo subito meglio vedendolo sorridere un po' malinconico nel suo ranch.
Quando disse che era malato, l'anno scorso, di una malattia che non si cura, eravamo tristissime. “Sì, sono arrabbiato, e, sì, ho paura”, aveva detto senza mezze misure. Ma lui, l'eroe catodico della nostra fanciullezza, ci rese orgogliose dicendo che non avrebbe mai smesso di lottare e lo avrebbe fatto anche a casa sua, fra i suoi cavalli. Forse non era famoso come Harrison Ford, forse vendeva meno di Brad Pitt e faceva meno notizia di Tom Cruise, ma lo amavamo alla follia, questo texano dalla mascella quadrata e gli occhi blu.
Il Foglio sportivo - in corpore sano