Vittorio Messori racconta l'estate che gli cambiò la vita

Un taccuino, una Vespa e un Vangelo. La conversione di un libertino

Valentina Fizzotti

C'è chi, come Giampaolo Pansa, incontra la fede quando vede avvicinarsi la fine. E c'è chi invece, come Vittorio Messori, nato e cresciuto da agnostico, lo “scontro” con Dio l'ha avuto in una calda estate torinese, quella del 1964, nel pieno della forza e della carnalità.

    C'è chi, come Giampaolo Pansa, incontra la fede quando vede avvicinarsi la fine. E c'è chi invece, come Vittorio Messori, nato e cresciuto da agnostico, lo “scontro” con Dio l'ha avuto in una calda estate torinese, quella del 1964, nel pieno della forza e della carnalità. E non si scandalizza dell'ondata di illuminazioni che da qualche tempo ha investito parte dell'intellighenzia italiana. “Penso alla parabola ‘degli operai dell'ultim'ora'”, commenta al Foglio. Quella in cui i lavoratori che arrivano a fine giornata sono pagati come chi ha iniziato a faticare dalla mattina. “Se qualcuno si converte, anche fosse in punto di morte – dice –, non posso che esserne contento. Quelli di cui diffido sono invece gli ‘ex' che sputano veleno sul loro passato. Come Odifreddi, matematico ed ex seminarista”. Messori rifugge gli schematismi. E' un volto noto, ma frequenta malvolentieri i salotti televisivi. Ha scritto due libri con gli ultimi due Papi (“Sulla soglia della speranza” con Giovanni Paolo II e “Rapporto sulla fede” con l'allora cardinale Ratzinger), difende il Vaticano come “struttura necessaria” ma non vuole essere definito “vaticanista”. Papista, invece, e difensore dei dogmi. Quello che gli interessa è far circolare certe idee, e fuggire dall'ipocrisia del politicamente corretto che costituisce l'ideologia egemone: “Il pensiero aperto in realtà è il più chiuso. Il vero libero pensatore è il credente”. Del cattolicesimo ama che racchiuda tutto in sé. “Jean Guinnot disse: ‘Sono cattolico perché voglio tutto'. E' l'et et, la legge segreta del mondo, il contrario dell'aut aut dei protestanti. Non è una facile accozzaglia o un sincretismo, ma al contrario una scelta difficile perché esige che si proceda all'unione dei contrari. La figura retorica del cristiano è l'ossimoro. Il primo et et è la Trinità, che si contrappone al feroce monoteismo dell'ebraismo e dell'islamismo: Cristo è uomo e Dio. Il mio ideale pastorale è il vecchio parroco, che unisce l'inflessibilità e il realismo della misericordia, che tuona dal pulpito contro i peccati ma che nel confessionale è realista e comprensivo”.
    Nel suo ultimo libro, “Perché credo – una vita per rendere ragione della fede” (Piemme) Messori risponde alle domande di Andrea Tornielli, vaticanista della Stampa. E racconta tutto se stesso, le sue profonde convinzioni, il rapporto con l'adorata moglie Rosanna, gli anni dell'infanzia, la famiglia anticlericale, gli studi con Bobbio nel tempio laico dell'Università di Torino. Ma soprattutto la sua conversione. Lui che era votato a dar la caccia alle gonnelle, voleva fare il giornalista e al solo sentir parlare di sacrestia o Dc pensava all'alito cattivo e ai calzini corti. La svolta avvenne quando trovò una vecchia copia del Vangelo e lo divorò assetato di risposte. Quando gli rubarono la Vespa di quarta mano, suo unico mezzo per fuggire a una quotidianità frenetica, ma quasi non reagì, rapito com'era dall'amore appena scoperto. Anche se, come dice lui, più che di un innamoramento si trattò “di una malattia irreversibile, la malattia chiamata Gesù dalla quale non si guarisce”. “Ogni cosa cattolica mi sembrò di colpo congeniale – racconta – perché sono un naturaliter catholicus”. Quella stessa estate gettò un taccuino compilato in anni di lavoro notturno alla centrale telefonica, zeppo di numeri di donne in cerca di compagnia. “Ero un libertino – racconta –. Ho praticato il sesso mosso dalla sensualità, ma sempre consapevole dell'enigma che rappresenta. La conversione più difficile è quella del cuore”.