(foto Unsplash)

Immagini e dèi

Edoardo Camurri

La Macchina algoritmica produce la sua mitologia. E solo una mitologia più grande può contrastarla

La Macchina algoritmica lavora prima per prevederci, poi per condizionarci e infine per sostituirci. Il suo movimento, così descritto, è deducibile dalla logica del suo funzionamento. La Macchina viene utilizzata per raccogliere i dati personali di ciascuno di noi, i dati a loro volta vengono elaborati dall’Intelligenza artificiale per costruire un nostro profilo, un nostro doppio, capace di prevedere le nostre azioni e i nostri pensieri. E’ importante prevederci perché in questo modo, come prima cosa, è possibile controllarci e sfruttare meglio le nostre caratteristiche a fini commerciali e politici. Ma la Macchina algoritmica è programmata anche per condizionarci indirizzando a ciascun individuo un flusso di informazioni e di immagini in grado di influenzare, conoscendoci a fondo, le nostre azioni, i nostri pensieri e le nostre emozioni nella direzione che la Macchina algoritmica decide essere la più utile ai suoi fini.

 

La Macchina algoritmica ci condiziona attraverso un lavoro di riprogrammazione cerebrale basato sulle emozioni primarie del nostro cervello evolutivamente più antico, imperniato sulle pulsioni di sopravvivenza primordiale; attrazione e repulsione, paura e desiderio. La Macchina algoritmica, attraverso il flusso discendente delle sue immagini, riscrive dunque un nuovo imprinting sulla nostra coscienza e, così facendo, riesce a potenziare, a liberare e a emancipare da noi stessi il nostro doppio digitale da lei creato. Mentre il nostro “io reale” è intrattenuto dal flusso discendente delle immagini provenienti dalla Macchina, il nostro simulacro digitale – e qui arriva la “sostituzione” come terzo movimento – diventa l’unico soggetto reale in campo.

 

Sul simulacro la Macchina algoritmica può infatti esercitarsi a simulare mondi possibili, scenari diversi, in un moltiplicarsi di universi paralleli dove i nostri doppi possono essere gettati in situazioni disparatissime tra di loro. Come più volte abbiamo scritto qui su 2666, il meccanismo e la logica del funzionamento della Macchina algoritmica richiamano il meccanismo e il funzionamento degli antichi sistemi gnostici, in cui l’universo non è altro che la parodia, potenzialmente infinita e replicabile, di un universo reale e irraggiungibile a opera di una divinità inferiore e malvagia; come nel pensiero gnostico e nella magia rinascimentale, la logica e il funzionamento della Macchina algoritmica dipendono dall’utilizzo di immagini (in senso lato, da intendersi cioè come forme simboliche, suoni, visioni, eccetera) che prima vengono estratte dalle nostre tracce online e che successivamente (ma è una successione logica, non temporale) ci vengono inviate secondo i meccanismi detti.

 

E la dipendenza dalle immagini è ora uno dei punti che vale la pena accennare e che si collega esplicitamente con l’altra dipendenza di cui scrivevamo qui la settimana scorsa: la Macchina algoritmica è tale perché è attaccata alla corrente elettrica visto che il suo funzionamento si basa sul consumo di miliardi di Watt di potenza. In un testo del 1923, il grande storico dell’arte Aby Warburg, un uomo ossessionato dalla potenza delle immagini e lo studioso più sottile nel decifrarne la vitalità tellurica, dionisiaca e metastorica, scriveva: “Il fulmine imprigionato nel filo, l’elettricità catturata ha creato una civiltà che si allontana dal paganesimo”. Warburg parlava esplicitamente di una civiltà che, avendo sostituito gli dèi – e la loro espressione attraverso le forze primordiali della natura – con la macchina, “minaccia di riportare il globo nel caos”. Il problema descritto da Warburg non è dunque così diverso da quello che 2666 prova a definire. Anche in questo caso assistiamo a una logica di previsione, controllo e sostituzione; la civiltà delle macchine si è appropriata degli dèi e ha costruito un mondo parodico di cui gli dèi imprigionati sono diventati fornitori di luce elettrica.

 

E’ un punto piuttosto complesso del nostro discorso visto che il centro della riflessione di Warburg, e di tutto il lavoro della sua vita, è andare a ricercare la logica delle immagini come momento in cui si continua a cristallizzare la presenza degli dèi antichi espulsi dalla civiltà delle macchine. Warburg studia la storia dell’arte come uno sciamano alla ricerca delle voci nascoste degli dèi; interroga le immagini per risvegliarne i significati primordiali, evocandone i fantasmi sepolti, riattivandone la potenza addormentata nelle loro forme. Le immagini da cui dipende la logica del funzionamento della Macchina algoritmica e attraverso cui la Macchina estende il suo potere sono dunque, in questo senso, anche la sede e il luogo in cui sono imprigionati gli dèi di una possibile liberazione. E’ la logica del vaccino: si depotenzia l’agente patogeno e lo si inocula nei corpi per arrestarne la diffusione. Allo stesso modo, si sono depotenziati gli dèi ma si utilizza il loro potere fantasmatico per dare vita a un ordine macchinico, digitale e parodistico di divinità maligna gnostica.

 

La grande guerra spirituale in corso si gioca dunque in questo campo. Come ci ha insegnato Warburg, gli dèi continuano a lasciare tracce della loro presenza, come formiche imprigionate nell’ambra. La Macchina algoritmica produce la sua mitologia. E soltanto una mitologia più grande può contrastarla. Occorre quindi hackerare le immagini. Accogliere il flusso delle immagini algoritmiche e scrutarlo come Warburg ci ha insegnato a fare quando, osservando la familiarità tra un mucchio di serpenti in un rito Hopi e i tortiglioni di un retablo barocco, gli pareva di ascoltare la voce di un Dioniso imprigionato che gli chiedeva soltanto, in una dissipazione di strategiche metamorfosi, di essere liberato.

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