CHRISTIAN DE SICA E MASSIMO BOLDI - Foto LaPresse

Cinepanettone e cinepandoro

Andrea Ballarini

Negli anni ’60 il panettone era un dolce circondato di un’aura di sacralità. Innanzitutto lo si mangiava una sola volta all’anno, lo si tagliava il giorno di Natale e la prima cosa che si faceva era metterne via una fetta da mangiare a San Biagio (il 3 febbraio), per proteggersi dalla tosse per tutto il resto dell’inverno.

Negli anni ’60 il panettone era un dolce circondato di un’aura di sacralità. Innanzitutto lo si mangiava una sola volta all’anno, lo si tagliava il giorno di Natale e la prima cosa che si faceva era metterne via una fetta da mangiare a San Biagio (il 3 febbraio), per proteggersi dalla tosse per tutto il resto dell’inverno. Oltre a quelli artigianali di pasticceria, che non erano ancora diffusi quanto lo sono oggi, due sole marche erano le vestali di quell’antico culto meneghino: Alemagna e Motta. Le altre marche erano ancora di là da venire o comunque non arrivano al grande pubblico. Poi, nel corso degli anni le due aziende sono state comprate dallo stesso gruppo, altri produttori si sono fatti conoscere e con impercettibili spostamenti progressivi si è arrivati alla situazione di oggi dove a metà novembre i supermercati sono già invasi dalle confezioni natalizie e con le svendite dell’invenduto si arriva quasi a marzo.

A paganizzare definitivamente la tradizione del panettùn, nel 1983 è arrivato Vacanze di Natale di Carlo Vanzina, antesignano del filone vacanziero in versione invernale. Allora non ce ne siamo accorti subito, ma il dolce milanese aveva di colpo guadagnato il prefisso ed era diventato “cinepanettone”. Anche se ancora in forma embrionale, già in quel primo film erano presenti tutte le caratteristiche del genere che da allora ogni anno si sarebbe arricchito di un nuovo episodio: location più o meno paradisiache (in quel primo caso era una Cortina di commuovente ingenuità, poi negli anni si sono setacciati i dépliant delle agenzie viaggi, e attendo con ansia “Natale in Papua Nuova Guinea”); cast farcito di starlette occasionalmente svestite; uno o più comici in voga (normalmente uno di richiamo e uno o più di supporto); comicità di grana un po’ grossa, con spolverata di turpiloquio dialettale; poderosa colonna sonora tempestata di hit popolari del momento.

Nel successivo ventennio poi, grazie soprattutto all’infaticabile coppia Boldi-De Sica, si è cristallizzato il canone cinepattonesco attraverso un’infinita serie di permutazioni cabalistiche: Anni ’90, Vacanze di Natale 2000, Merry Christmas, Natale sul Nilo, in India, a Miami, per citare solo i titoli più famosi. Sembrava che la cosa dovesse continuare così all’infinito, poi nel 2006 la coppia di attori si è scissa. Poteva essere la fine di una tradizione. Invece il cinepanettone si è comportato come il dolce da cui prende il nome (nomen omen), si è sdoppiato: negli anni ’70 per la gioia di grandi e piccini è arrivato il pandoro, nel 2006 è nato il cinepandoro. E il nuovo prodotto ha caratteristiche assai simili al modello originale, anche se non è proprio identico. Esce un po’ prima del cinepanettone, infatti si trova in commercio già nella seconda metà di novembre, ma gli ingredienti sono gli stessi con minime varianti. Apro una parentesi: in realtà panettone e pandoro sono prodotti abbastanza diversi, ma negli anni si è assistito (con rare eccezioni) a un progressiva brioscizzazione di entrambi, con grave dispiacere degli appassionati. Non ci sono più i panettoni e i pandori di una volta.

Negli anni ’80 e ’90 i dolci natalizi si sono moltiplicati. Per i target nevrotici sono comparsi abeti con il ripieno allo champagne, Santa Claus farciti alla marmellata, Stelle di Natale ricoperte di glassa e mandorle e così via: tutte stravaganze che sono durate l’espace d’un matin. Sono preoccupato che lo stesso tipo di evoluzione possa ripetersi anche sugli schermi. Già mi immagino i produttori raschiare il fondo del barile televisivo, recuperando comici di quarta e pupe corredate dai relativi secchioni per imbastire improbabili papponi all’insegna della contaminazione culturale tipo “Vacanze a Rio col vampiro” o “Bunga bunga al mare sotto l’albero di Natale”.

Svanita l’atmosfera natalizia con la progressiva laicizzazione della società, smesso di aspettare i regali mesi prima ai tempi dell’adolescenza, ridotte le luminarie in tempi di crisi, oggi ci si accorge che è arrivato il Natale quando sui cartelloni compaiono le facce ridanciane della solita decina di attori che presidiano i cinepanettoni.
Non ho niente contro i cinepanettoni, che normalmente poi vedo sei o sette mesi dopo in televisione (nemmeno loro sono più prodotti esclusivamente stagionali, ma vengono consumati a vario titolo per gran parte dell’anno), ma questa quasi obbligatorietà, per cui a Natale arriva il film vacanziero mi ricorda uno degli aspetti più sgradevoli delle feste: la tradizione del regalo. Che lo si voglia o no, che si sia affezionati o meno, alla vecchia zia il regalo bisogna farglielo e non sapendo che cosa regalarle, ce la si cava il più delle volte con il panettone: tu ne dai uno a lei e lei spesso ne dà uno a te; tu magari ci aggiungi una bottiglia di spumante italiano un po’ corrivo, tanto è compreso nella confezione regalo comprata al supermercato. E al cinema è uguale: nessuno ne sente veramente il bisogno, ma tutti gli anni i produttori sfornano i loro cinepattoni, cinepandori eccetera e noi si va a vederli in massa, anno dopo anno, vagamente narcotizzati dalla stessa ripetitività della cerimonia. E se decidessimo di abolire i regali obbligatori? Chissà, forse il panettone riperderebbe il prefisso.
 

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