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Una fogliata di libri
"Vita con gli animali". Maccari e la lezione segreta degli animali
Nel suo nuovo libro, Giovanni Maccari sperimenta la sua poetica: gli animali distraggono dalla vita umana e la vita umana distrae dall'animalità su cui si fonda. E ci dimostra che la letteratura e l'esistenza si muovono disegnando arabeschi senza una trama coerente, come fanno i gatti
Se una delle misure dell'arte sta nella capacità d'imparare e poi dimenticare tutto, Giovanni Maccari è un artista nel senso più naturale del termine: un raffinato umanista che non ha più bisogno di dimostrare di esserlo, e che grazie al suo orecchio esercitato sa ritrovare una sorprendente, “spontanea” freschezza inventiva. Maccari ha scritto romanzi, racconti e saggi critico-narrativi, lavorando spesso su alcuni autori russi (Cechov, Babel, Gogol) e italiani (Pontiggia, Piovene, Landolfi). Indipendentemente dal genere e dal tema, la sua scrittura conserva un’apparente svagatezza che la mantiene a ogni frase libera, fluida, aperta come un discorso parlato. Lo conferma oggi il bellissimo “Vita con gli animali”, uscito per le edizioni Metilene. E’ un libro che raccoglie storie di poche pagine, ritratti o racconti al limite dell’operetta morale. Gli animali sono lombrichi, salamandre, volpi, tassi, cani, gabbiani, cavedani, manguste, locuste, e soprattutto gatti e pappagalli nevrotici. Il primo pezzo descrive la giornata di pesca di un bambino, che nell’assenza provvisoria del padre scopre l’angoscia di una solitudine infinita: e il modo stupendo con cui viene reso l’orgoglio deluso dell’apprendista, insieme col paesaggio fluviale, fa pensare a un Twain, o a un Hemingway dei racconti di Nick Adams, trapiantato nell’antica civiltà letteraria toscana dei Redi e dei Magalotti.
Nel secondo racconto, dall’infanzia si passa all’adolescenza, con il motivo dei ragazzini che esercitano la loro crudeltà sulle salamandre e con quello, ricorrente, della sfiducia nell’azione da parte di un narratore che proprio perché la esaurisce nella fantasia non la compie. Crescere, in queste storie, vuol dire corrompersi: presto al fiume si va coi giornaletti porno, e alle bestiole si potrà tornare solo da adulti, grazie all’alibi dei figli. Un altro tema dominante è quello degli animali prima molto voluti e poi dimenticati nel trambusto romanzesco dell’esistenza umana: così la volpe, nel racconto a lei dedicato; così le manguste di Cechov; così, ancora, il “Cane” mandato in esilio dai suoceri, che dopo le visite sempre più rapide dell’ex padrone “saliva su un muretto e si metteva a scrutare l’orizzonte come Napoleone sullo scoglio di Sant’Elena”. E’ pigrizia etica, certo. Ma dipende anche, per usare una struggente espressione di Sergio Solmi, dalla “trascendenza reciproca” delle specie, che sono condannate a vivere le une accanto alle altre in mondi incomunicanti. Quella che per una famiglia umana è una giornata di festa in spiaggia, in cui un gabbiano ferito innesca un gioco sentimentale destinato a esaurirsi al tramonto, per l’animale in questione è una lunga agonia: e i suoi simili che gli si raccolgono intorno, troviamo scritto con tipica spietatezza en passant, “Forse cercavano il gabbiano morto, o forse si contendevano il pane che i ragazzi gli avevano buttato”. Uno dei generi maccariani è la “vita”: e che riguardi Puskin o un pappagallo, il suo svolgimento ha lo stesso tono.
L’umorismo e la malinconia di questo tono derivano dal puro scorrere incoerente dei fatti vitali. Più che protagonisti, gli animali sono qui punti di fuga, cartine di tornasole, attrezzi intorno a cui far ruotare le divagazioni. La poetica di Maccari è quella dei gatti: che come l’esistenza, e la letteratura, si muovono disegnando arabeschi senza una trama coerente. Gli animali distraggono dalla vita umana, e la vita umana distrae dall’animalità su cui si fonda. Maccari ce lo mostra con uno stile che oscilla tra la comicità di Cavazzoni, il sillabario alla Parise, e l’esattezza della prosa d’arte: uno stile di semplicità studiata, ma mai bamboleggiante.
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