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Una fogliata di libri
Il grande Harold Pinter, nonostante il Nobel
Debuttò da drammaturgo con un fiasco clamoroso, per poi ottenere il massimo riconoscimento possibile nel 2005. In mezzo alle difficoltà di chi fa cadere dal cielo della grazia letteraria un’opera con la quale i posteri dovranno fare i conti
Esattamente vent’anni fa comminavano il Nobel per la Letteratura a Harold Pinter. Il quale, al di là di questo spiacevole contrattempo, è davvero uno degli autori su cui conviene meditare molto, ovviamente dopo averlo riletto e rivisto in scena, ammesso che non arrivi un regista deciso a polverizzarne il genio in favore del proprio, spesso presunto – il riallestimento più recente è “Ritorno a casa”, molto ben diretto da Massimo Popolizio, in scena al teatro Argentina di Roma.
Londinese di un distretto nord-orientale, famiglia ebraica di origini ucraine e polacche, Pinter cominciò sbagliando ruolo – si pensò attore, poi capì che non era roba per lui –, debuttò da drammaturgo con un fiasco clamoroso – lo splendido “The birthday party” (Il compleanno), in Italia l’abbiamo visto nella versione di Peter Stein – e finì col massimo riconoscimento possibile. Carriera non male, contrappuntata dalle difficoltà che incontra sempre chi segna una discontinuità col passato e fa cadere dal cielo della grazia letteraria un’opera con la quale i posteri dovranno fare i conti, condannando i contemporanei a spaccarcisi la testa – “non si capisce niente” è il compendio, in verità non troppo sbrigativo, di quel che dicevano i detrattori, cioè tutti.
L’opera di Pinter, che solitamente viene ascritta all’influenza beckettiana, è interessante per mille ragioni. La più evidente è la quantità di botole in cui lo spettatore (o il lettore) precipita continuamente. Tutto quel che accade, sta per accadere, e quando accade, se accade, accade “sotto”: sotto il testo, sotto le parole, sotto le apparenti relazioni tra familiari. Oppure “sopra”, in una terra sconosciuta tra il passato e il presente, tra l’individuale e il collettivo.
Si pensi al testo più enigmatico, ricco e inquietante – impossibile scollarselo di dosso – che Pinter abbia mai scritto, “Ceneri alle ceneri”. In scena, Devlin e Rebecca, un uomo e una donna di quarant’anni. Casa di campagna, stanza a piano terra. Estate, quasi sera. Le luci delle lampade incrementano quanto più l’esterno si rabbuia, e così la commedia, da una normale (normale?) conversazione (conversazione?) tra marito e moglie deraglia, mentre fuori si fa scuro, verso abissi che fanno perdere forza gravitazionale all’azione, e all’azione delle parole, e allo spettatore seduto in platea. Rebecca si porta dentro qualcosa di più di sé stessa, forse un passato che è collettivo, di soprusi e deportazioni, di dolore inemendabile, indicibile, abominevole. La situazione perde connotati corporei e sembra fluttuare in una dimensione astratta e dolorosissima, in cui tutto potrebbe essere ciò che sembra ma anche il contrario. E parola dopo parola, tutti – compresi coloro che stanno guardando – tornano a un’origine. Di cosa, esattamente, non è dato sapere. Forse del dolore – un dolore che ci precede, che ci ha generato, uno strazio della Storia e dell’umano. Un testo che sfida continuamente sé stesso, confronto scioccante con le possibilità, esplorazione estrema del teatro, della parola e della rappresentazione. E’ una cerimonia misteriosa, forse un’entrata nella morte come origine della vita. Devlin ha paura di Rebecca. E di cosa c’è nel suo passato. E la sua mancata comprensione (brividi compresi) è anche la nostra.
Harold Pinter, come tutti i grandi scrittori, ci rivela la realtà: nessuno aspetta più Godot. Nessuno ha la disperazione di inventarselo. Quanto all’innocenza, niente da fare – troppo tardi.

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