Giorgio Caproni nella grafica di Enrico Cicchetti 

una fogliata di libri

La parabola di Giorgio Caproni, tanto poetica quanto umana

Daniele Mencarelli

Nella sua produzione una poesia su tutte dovrebbe essere ricordata: "Lamento (o boria) del preticello deriso”, una storia in versi

La letteratura contemporanea ha prodotto in rapida sequenza generi e sottogeneri, divisioni avulse da qualsiasi significato formale, dunque concreto. Fiction. Autofiction. Giusto per citare le più accreditate al momento. Ma si potrebbe continuare. Allo stesso modo, ha ripreso i generi tradizionali scavando solchi tra gli uni e gli altri, creando divisioni ideologiche da far tremare i polsi. Poesia e narrativa, in questo senso, sono diventate lingue dicotomiche, inconciliabili. Il poeta non è narratore. E viceversa. Questo in barba alla storia della letteratura stessa, in particolare quella anglofona, che ha tra i padri illustri uno che sapeva passare da sonetto a tragedia, o commedia. William Shakespeare. Elementare Watson. Ma pure qui da noi, da Pasolini all’indietro, quanti si sono divisi con eguale compostezza e intensità fra scritture diverse.

  
Con questo, ovviamente, non si negano le evidenti divergenze. Un poeta respira in sillabe, un narratore affresca per descrizioni. C’è una radice comune, però, che rimanda alla vera lingua madre. Una consanguineità antica quanto l’uomo. 

 
Il teatro. La scena. Una visione incarnata dentro la realtà. Visione dentro una scrittura che la avvera. Più che una catalogazione all’infinito per generi, figlia evidente della differenziazione da marketing, religione ottusa del nostro tempo, non è forse questa l’unica cosa che conti quando ci troviamo di fronte a un testo? Che sia in prosa o poesia quanto biografico o meno.

  
Una scrittura avverata, che renda vero il viaggio che propone.

 
Fra i grandi, e tanti, maestro del nostro Novecento spicca per amorosa dedizione alla parola Giorgio Caproni. Una parabola, la sua, tanto poetica quanto umana assolutamente in divenire. Dalla grazia innamorata alla disperazione calma, senza sgomento. Un uomo cercatore, cacciatore, che nel corso degli anni di vita prosciuga gli occhi come il dettato in una ricerca sempre più massacrata di Dio. Dall’amore sviscerato per la madre Annina, e forse proprio da questa mancanza, la sua lotta con l’invisibile diventa via via più inesorabile quanto umana, senza risposta ultima oltre la caccia stessa.

 
Nella sua produzione una poesia su tutte dovrebbe essere ricordata al pari di tanti titoli della storia della letteratura italiana. Un capolavoro, molto semplicemente. E’ in uno dei suoi libri più belli, “Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee”, del 1965. 


“Lamento (o boria) del preticello deriso”.

 
Per chi si avvicina a questo testo, come definirlo con i parametri odierni? La prima risposta che viene è ovviamente quella del poemetto. Una poesia con più strofe dove si delinea un percorso che non è solo poetico, ma che diviene pure narrativo, drammaturgico

  
Al posto di poemetto, dunque, termine che appare desueto, oramai quasi anacronistico, si potrebbe definire una storia in versi. Ma questa possibile chiave di lettura, definizione, già stride con chi classifica la letteratura con la stessa perizia dei tassidermisti.

  

Professione meravigliosa che ha a che fare più con la morte che con la vita. A differenza della letteratura. Per chi invece continua ad avvicinarsi alla lingua, ai libri, ostinandosi al culto della curiosità più di ogni altra cosa, e non ha mai avuto modo di leggere il preticello di Caproni, corra a cercarlo, non in rete, ma in libreria. 

  
Avrà modo di conoscere un prete diverso da tutti gli altri, che trama e che di fronte a un seno femminile esclama che esortazione, / gente, era all'erezione! Un prete umano e fallibile, che arriverà all’unica vera invocazione: prego… non perché Dio esiste: / ma come uso soffrire io, perché Dio esista.

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