Una fogliata di libri

William Blake, troppo attaccato a Dante per pensare ad altro

Rinaldo Censi

Nell’anno della celebrazione dantesca, non poteva mancare il poeta inglese 

Il 25 aprile del 1827, alcuni mesi prima di spirare, William Blake scrive all’amico John Linnell, paesaggista di fama che aveva a cuore la sua sorte. Fu infatti lui a commissionargli la serie di incisioni che compongono il “Book of Job” e a tentare di vendere i suoi libri miniati. Lo segue, lo sprona e finanzia, e rilancia – gli propone di lavorare a illustrazioni della “Commedia” di Dante. E Blake gli scrive: “Miglioro di Giorno in Giorno, come penso, tanto nella salute quanto nel lavoro. […] Vado avanti senza osare far conto sull’Avvenire. […] Per quanto riguarda Ugolino, non avrei mai creduto di doverli vendere. […] Sono troppo attaccato a Dante per poter pensare ad altro”.

 

Nell’anno della celebrazione dantesca, Blake non poteva mancare. Ma di quali “Ugolino” parla? Dovrebbero esisterne due. Un disegno a soggetto dantesco, Ugolino in prigione con i figli, realizzato negli anni Ottanta del Settecento e una tavola successiva, legata alle 102 realizzate per conto di Linnell: “Ugolino narra la sua terribile storia”. Riprendiamo queste informazioni dal bel volume “William Blake. La Divina Commedia di Dante” edito da Taschen, a cura di Sebastian Schütze e Maria Teresa Terzoli. 

 

Perché inaugurare il suo viaggio dantesco partendo dal Canto 33? I motivi non mancano. Uno è forse riconducibile alla competizione con Sir Joshua Reynolds che, nel 1773, aveva esposto alla Royal Academy un dipinto intitolato “Count Ugolino and his Children in the Dungeon”. E’ a tutti noto lo spigoloso confronto tra i due. Così come sono note le “Annotazioni” di Blake ai discorsi di Reynolds. Le loro posizioni sono antitetiche. Quando l’ecclesiastico nel suo settimo Discorso scrive che la “ragione dovrebbe dominare, dall’inizio alla fine, i più alti voli della fantasia e dell’immaginazione”, Blake commenta: “Se è vero, è diabolicamente stupido essere un artista”, ricorda Hugh Honour nel suo “Il Romanticismo”. L’unica religione di Blake era proprio quella: l’invenzione, il potere dell’immaginazione. E’ anche per questo che all’epoca la sua arte risultò largamente incompresa. La sua unica mostra personale, del 1807, tenutasi nella merceria del fratello, dove riunì un ciclo dedicato ai “Racconti di Canterbury” più altre opere, fu un fiasco colossale. “Confuso e mal disegnato”, si legge in varie critiche (la casa editrice Casimiro ha da poco pubblicato “William Blake. I miei quadri”, cioè il “Catalogo” di quella mostra, scritto da lui stesso). 

 

Che caratteraccio deve aver avuto. Quando ha per le mani l’edizione della “Divina Commedia” che il suo mecenate, William Hayley, gli ha passato, tradotta da Henry Boyd, non trova di meglio che apporvi note critiche sui bordi. Non tanto indirizzate a Dante che, nel suo Pantheon, sta a fianco di Milton, Omero o Shakespeare, ma al suo traduttore (nonché al suo stesso mecenate). A ciò che essi rappresentano. L’ostacolo alla libertà di espressione. L’ossequiosità nei confronti dell’aristocrazia e del potere politico-religioso. Se vogliamo, nelle sue tavole, in parte non finite, Blake accentua la critica dantesca alla Chiesa e al clero. Tanto che alcune portano ancora i segni di questi sfoghi (come nella tavola dedicata al conte “Ugolino” dove i parametri dell’arcivescovo traditore sono accentuati da pennellate color porpora). L’unica cosa che sembra limitarlo, e sembra intimidire la sua sete di invenzione, è la forza del testo di Dante. Per questo le tavole appaiono spesso letterali. La sua immaginazione appare mitigata dalla potenza della “Commedia”.

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