Edouard Manet, “Ritratto di Emile Zola” (olio su tela, 1868) 

Una fogliata di libri

No, scrivere non è come lavare la macchina

Marco Archetti

Sulla pagina bianca sono sbocciate mille mitologie, si sono immaginati sviluppi narrativi, si sono costruite vere e proprie mistiche della scrittura. Nessun mito è stato più fecondo di questo simbolo di infecondità

    Pagina bianca, bestia nera degli scrittori. Pagina bianca, panico supremo. Pagina bianca, deserto da attraversare. Pagina bianca, Waterloo di Cioran. Pagina bianca, cerino umido. Oh scrittore felice e goethiano che ama la pagina bianca e la sa accendere, dove sei? E tu, perplesso polpastrello di Damocle (copyright Gesualdo Bufalino), perché indugi? In materia di pagina bianca ci sono molte scene di film che fanno al caso nostro. Scene per lo più derivate da (o, chissà, innescanti) un immaginario di avvilente mediocrità radicato collettivamente – qui non si sa se nasce prima l’uovo della banalità o la gallina del banale.

      

    Scene che vedono lo scrittore affranto, seduto a un tavolo, scarmigliato e alcolizzantesi tra fogli appallottolati, con le maniche della camicia “fatte su” mentre si massaggia il volto con le mani, soccombente e disperato, in cerca di un’idea per cercare di riempirla, questa maledetta pagina bianca. Oddio, un’idea... anche uno straccio di idea. Probabilmente al poveretto andrebbe bene perfino un’idea non intelligentissima. Diciamola tutta: lo scrittore, in quelle condizioni, non direbbe di no nemmeno alla più sgangherata e improponibile trovata di terz’ordine, e lo si vede dalle occhiaie, lo si sente nel fetore dell’alito da notte insonne passata a ciucciar bottiglie di bourbon (una, di solito vuota, giace ai piedi della scrivania-Golgota). E se, per crudele soprammercato, il fato fosse tanto avverso da non fargli cascare sul tavolo questa maledetta idea – al momento introvabile e ancora impilata nell’Iperuranio insieme a un mucchio di altre idee intonse –, possiamo star certi di una cosa: arriverà la catastrofe. E lo scrittore perderà la donna, i figli, il senno, il decoro. Eccetera.

     

    Già, eccetera: sulla pagina bianca sono sbocciate mille mitologie, si sono immaginati sviluppi narrativi, si sono costruite vere e proprie mistiche della scrittura. Nessun mito è stato più fecondo di questo simbolo di infecondità. Pagina bianca: che fare? Cominciamo da un lampo autobiografico: chi scrive non ha mai avuto problemi con la pagina bianca. Non solo: chi scrive si è sempre vantato di non sapere cosa fosse il panico da pagina bianca. Epilogo: l’ottuso vanto è cessato qualche anno fa. E non perché, improvvisamente, il pozzo si sia seccato o l’abbia avuta vinta la necropoli cartacea di tutte le idee scartate. Ma per la maturazione di un dubbio enorme, che riguarda, in generale, quello che insegniamo. Fino a qualche anno fa, chiunque abbia avuto l’occasione di passare anche solo un’ora in nell’aula di una scuola di scrittura, doveva aspettarsi la fatidica domanda: “Che si fa se si ha il panico da pagina bianca?” Di solito si rispondeva di non averne paura, si insegnava a non temere di cominciare a scrivere qualunque cosa purché si scrivesse, ma giusto perché poi – poi – su quella distesa di neve si potessero posare tracce sempre più definite, tracce utili per “trovare” la pagina definitiva.

      

    Peccato che, da qualche tempo, la domanda non arrivi. E se, in un silenzio teatrale, sussurri “pagina bianca” la classe non fa un plissé. Nessuno ha più paura della pagina bianca? Ha vinto la spavalderia grafomane? Perfida eterogenesi: a furia di esorcizzare, a furia di convincere il prossimo a prendere il vuoto sottogamba, abbiamo convinto tutti a illudersi che il pieno sia meglio a prescindere. Ma a prescindere da cosa? (Per non parlar della rete, suprema latrina, in cui è tutto un trionfo di copy, comunicatori, analfabeti di andata, pisciarighe e guitti assortiti che propalano ricette. Le chiamano così. Ricette.)

      

    The Times They Are a-Changin’: è giunto il momento di insegnare a temere mortalmente la pagina bianca. Temere di riempirla con delle idiozie, con una prosa sciancata, con un’idea fessa, con una catena di stupidaggini monumentali seppur lodabili da un cretino di rango. E’ il momento di evocare fantasmi e paure ancestrali, di scoraggiare e maledire, e di smettere di confortare gli aspiranti-qualunque-cosa. E’ il momento di dir loro che di panico da pagina bianca non se ne ha mai abbastanza, e che posare una parola non è cosa che si possa fare con la leggerezza di chi, a tutto ciò, antepone il proprio panico, disponendosi a tutto pur di superare quello: perché la parola è sacra. La grande letteratura è la storia di un panico da pagina bianca cui un genio ha resistito malgrado se stesso, e solo per cento, duecento o trecento faticose, tormentose e difficilissime pagine, che esistono perché, nel cestino della carta straccia, si trova il più commovente monumento alla strizza preventiva. E’ ora di tornare a dire che scrivere non è come lavare la macchina.