Una fogliata di libri

Antropologia del turchese

Simonetta Sciandivasci

La recensione del libro di Ellen Meloy, BlackCoffee, 364 pp., 18 euro
 

    In un telefilm che abbiamo molto amato tutte, inclusi certi numerosi ragazzi che lo hanno visto di nascosto, intimoriti forse dal titolo italiano, “Una mamma per amica”, la madre di una ragazza molto sveglia, quando racconta quanto fosse sveglia anche da bambina, dice che una volta aveva chiesto: “Che cos’è un colore?”. Sapreste rispondere? Sapreste, poi, dire il giallo, il turchese, il viola, l’amaranto? I colori li usiamo per descrivere, e non pensiamo mai che siano altro che strumenti, che esistano al di fuori dello schema disegnato dall’assioma della funzione che fa l’uso, e dal suo contrario. Eppure gli scritti dei pittori (quelli di quando esisteva la pittura), traboccano di teorie dei colori che chiariscono come essi siano soggetti agenti, attori protagonisti, dati condizionanti, perfino contesti. “L’arancione è come un uomo sicuro della sua forza”, scrisse Vasilij Kandinskij, che riteneva che il blu fosse il colore del senso profondo delle cose.

    Nelle prime pagine di questo suo libro sui colori e sullo spazio come viventi, Ellen Meloy scrive: “Mi piacerebbe produrre immagini nello stesso modo in cui avanzo nel deserto, guidata dal semplice movimento, investita di una forma di sapere indiretta e obliqua nella sua stessa essenza”. E ci riesce in tutte le decine di pagine che seguono. Questo è un libro che dice cosa sono i colori: “Non proprietà bensì intime manifestazioni di un campo energetico”, “luci dotate di precise lunghezze d’onda, misteri profondi che risuonano di una soggettività sconfinata”. E, soprattutto, li usa per scrivere una storia nella quale essere umano e ambiente si scambiano i ruoli: ad agire e produrre è il creato, mentre l’uomo fa da piattaforma. Non un uomo qualsiasi, ma una scrittrice che è anche pittrice e che nella pittura e nella ricerca dei colori giusti cerca un ristoro per una ragione precisa: sa che i colori arrivano là dove le parole non possono.

    Ellen Meloy ha dedicato una vita intera all’esplorazione ambientale, ha trascorso molti anni nel deserto, ha sposato un ranger che l’ha portata a vivere nello Utah, ma lei ha scritto da molti altri posti, da “quella paella che è Los Angeles” e dal deserto intorno a essa soprattutto, dissolvendo i nomi, creando uno spazio nuovo, inventato ma presente, dove tutto è corrispondenza e interazione tra sentimenti e piante, desideri e terra, sogno e vento. Questo è il libro di una donna che si spoglia dei caratteri storici e culturali e lascia che il mondo la invada, le scriva addosso, la cambi, le parli, le si confessi, la colonizzi. “Ho smesso di cercare di dare nomi alle cose. Non mi importa più se sono muta, o se la mia lingua non serve più alcuno scopo se non quello di assaporare il gusto del sale. Quella verbale è una mappa fuorviante. Un labirinto che conduce a un falso tesoro”.

    Questo è un atlante sullo scoprire il mondo com’era prima che arrivassimo noi, su come sentirlo, su come farsene informare, rendersi il suo giornale, la sua pagina. È un libro magico, difficile da raccontare, e scusate se non lo faccio, ma non ho colori. Voi leggetelo. Anche una paginetta al giorno. Dura un anno.

     
    Antropologia del turchese
    Ellen Meloy
    BlackCoffee, 364 pp., 18 euro