Una fogliata di libri

La strana sorte del taccuino scomparso di Cesare Pavese

Matteo Marchesini

    L’8 agosto del 1990 uscirono sulla Stampa i pochi appunti che riempivano un taccuino inedito di Cesare Pavese. Si trattava di pagine stese tra il 1942 e il ’43, in piena guerra, e sollevarono un piccolo scandalo. Pavese non era mai stato un vero intellettuale engagé. Il suo disgusto per la dittatura dipendeva soprattutto da ragioni “di stile”. Al confino era finito per puntiglio amoroso, e non aveva partecipato alla lotta partigiana. Il suo libro più bello, “La casa in collina”, racconta proprio questa incapacità di agire. Ma nel Dopoguerra la sua figura einaudiana era divenuta comunque un simbolo della Torino antifascista e comunista. Si capisce perciò lo sconcerto di tanti, quando lessero che secondo lui le stragi naziste si potevano paragonare a quelle della Rivoluzione francese, e che il fascismo aveva dato finalmente una “disciplina” agli italiani, il cui difetto stava nel non saper “essere atroci”. Il taccuino però conteneva anche altro: ad esempio qualche rapida riflessione sul carattere magico della poesia e sul pensiero di Nietzsche, che allora appariva inscindibile dalla vulgata nazista, e che nel contesto si confondeva con l’antico dannunzianesimo di Pavese. In questo senso sembra quasi di vedere un ponte tra le assurdità su “sangue e suolo” e gli interessi antropologici che si esprimeranno nella collana viola dell’Einaudi, curata di lì a poco dallo scrittore con Ernesto De Martino.

     

    In frasi del tipo “La guerra è destino come l’amore” si sente invece l’eco del “Mestiere di vivere”. Quelle paginette puerili sono forse il lato in ombra del diario ufficiale? Curando oggi per Aragno un’edizione del “Taccuino segreto”, Francesca Belviso prova a far quadrare i conti. Come certi biografi dannunziani che idolatrano il loro oggetto, vuole giustificare ogni dettaglio. Ma così sovrinterpreta tutto, ingigantendo la macchia di uno scritto marginale e dallo statuto incerto. Nonostante questa esibizione di acribia, la Belviso dimentica però di dichiarare nella nota al testo una circostanza che il lettore registra solo se si sofferma con molta attenzione sui saggi da cui viene quasi soffocato: il quaderno è sparito, e a noi restano delle fotocopie un po’ rudimentali. La storia ce la spiega Lorenzo Mondo, che lo trovò a inizio anni 60 a casa della sorella di Cesare. Il giovane Mondo, parecchio turbato, lo fotocopiò e diede l’originale a Italo Calvino. Quando nel ’90, finita la Guerra fredda, consegnò le sue fotocopie alla Stampa, Calvino era già morto, e del quaderno si erano perse le tracce. In ogni caso sull’autenticità non ci sono dubbi. Mondo ricorda che lo scrittore si difendeva dalla politica, e nel pezzo che apre il volume Angelo D’Orsi insiste sulla sua consapevolezza dolorosa di non poter uscire dal lavoro letterario. Questa consapevolezza affiora dall’intera opera pavesiana, compreso il taccuino: “Sempre letterato. Piovono tuttora le bombe e tu pensi già a farne un racconto”. E’ l’insofferenza per la propria identità a stimolare la fuga nel nazionalismo, che nella “Casa in collina” Pavese attribuirà a un personaggio minore. Le sparate da spirito forte e i sarcasmi longanesiani sugli antifascisti riflettono un tentativo di uscire da sé abbastanza tipico degli intellettuali che si esaltano e insieme si disprezzano: siamo alla solita ammirazione per la barbarie e per i “grandi uomini”. Meglio poi – cioè peggio – se questi uomini hanno le ambizioni letterarie di Mussolini e Hitler. Pose velleitarie, da adolescente. L’autore lo sa, e continua a interrogarsi sulla sua immaturità perenne.

     

    Anche nell’appendice, che riporta le reazioni a caldo del ’90, prevale un’interpretazione del genere. Se Pajetta dà a Pavese del disertore e la Pivano si confessa “sbalordita”, la Ginzburg e la figlia di Augusto Monti vedono in lui un eterno ragazzo. “Non è mai stato niente” aggiunge la Monti con un’espressione terribile già usata da Saba. Ferrarotti invece considera l’amico un contadino delle Langhe che non si è mai adattato alla città. “Era un esploratore da fermo” dice in una battuta memorabile. Dopo il 1950 l’egemonia editoriale passò a Calvino, un esploratore più incline all’azione di Pavese, come il figlio della “Casa in collina” lo è rispetto all’alter ego pavesiano. Ma il ragazzo Calvino era anche più scaltro nel venire a patti con le culture dominanti. Nel dossier messo insieme dalla Belviso appare in due immagini significative: nella prima parcheggia tempestivamente la sua fuoriserie bianca sotto casa di Mondo, per capire come intende amministrare le carte di Cesare; nella seconda, dopo avere partecipato alle riunioni dei dissidenti einaudiani, spiffera tutto al padrone Giulio. Cosa avrà fatto del taccuino?