A Praga con Kafka

Roberto Paglialonga

La recensione del libro di Giuseppe Lupo, Giulio Perrone Editore, 116 pp., 15 euro

Il rapporto tra uno scrittore e la sua città è il rapporto tra un uomo e la sua anima. Nel caso di Franz Kafka si tratta di un’esperienza viscerale e identitaria. Non tanto perché Praga sia stato il palcoscenico dei suoi racconti e dei suoi romanzi. Quanto per la peculiarità dei contrasti che l’uno e l’altra furono costretti ad affrontare – e subire – al cospetto di una modernità prepotente, che proprio sul finire dell’Ottocento iniziava a farsi strada nelle vicende d’Europa. Così – come in ogni storia d’amore e di tormenti che si rispetti – la smania di fuga e di libertà che lo scrittore boemo, nato in una famiglia ebraica di lingua tedesca nel 1883, manifestò incessantemente, fu sempre lì, ad accompagnarlo, a stuzzicarlo gettandolo nello scompiglio. La stessa ansia che lo colpì nei confronti del proprio retaggio familiare, in particolare nei confronti del padre, accusato addirittura di essere all’origine di quel sentimento di “inadeguatezza, incapacità, inettitudine, colpa, a monte della condizione di insetto”, che lo soffocherà nella tubercolosi. Qui i perni della parabola kafkiana.

  

L’analisi che ne fa Giuseppe Lupo, in uno dei volumi della bella collana curata da Giulio Perrone Editore dedicati al rapporto tra grandi autori e luoghi di appartenenza, è puntuale e “visiva”. Lupo, docente alla Cattolica di Milano, già noto per romanzi di successo e rara delicatezza – uno fra tutti Gli anni del nostro incanto (Premio Viareggio Rèpaci 2018) – si mette a braccetto del signor K. e spinge il lettore a seguirlo nei meandri della sua vita e nelle viuzze della città che gli diede i natali, cullandolo sempre tra senso di radicamento e cosmopolitico desiderio di aria nuova. E realizzando in lui la tensione di un “tempo sospeso”, nel quale leggere il dramma dell’uomo borghese. Solo, di fronte alle responsabilità, appunto, “di sentirsi uomo”.

  

E non è un caso che il “tour” possa iniziare dal luogo nel quale il corpo è chiamato a riposare eternamente e l’anima a salire nei cieli: il cimitero ebraico di Strachnitz, dove il Nostro è sepolto di fronte all’amico e biografo Max Brod; e chiudersi là dove giace il museo che ne preserva la memoria, nel quartiere di Malá Strana. Estremi di un itinerario che passa tra le principali tappe di un’epopea metamorfica: le case dove Kafka visse fin da bambino, nei frenetici spostamenti imposti dal padre-padrone alla ricerca di affermazione sociale; gli uffici dell’Istituto di assicurazioni a Na Porící, nei quali lo scrittore e impiegato-modello trascorse suo malgrado gran parte del quotidiano; le rive della Moldava, percorse magari in compagnia del giovane aspirante poeta, Gustav Janouch, che desiderava carpirne i segreti letterari.

 

Lo sguardo vaga a voler rintracciare i segni di quel mistico “sacerdote oracolare” di inizio secolo che, come dirà Franco Fortini “ha saputo ciò che noi abbiamo soltanto vissuto” della carneficina di Auschwitz e dei deliri totalitari del Novecento. E che ha scandagliato l’inquietudine umana come forse nessuno. Un anelito di libertà che, se non è sostenuto dalla speranza, diviene asfissia.

  

A PRAGA CON KAFKA

Giuseppe Lupo

Giulio Perrone Editore, 116 pp., 15 euro

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