Uffa!

Gli infiniti linguaggi di Carlo Mollino, nato per stupire

Giampiero Mughini

Paola e Rossella Colombari, eroine del mercato antiquario moderno, illuminano la storia e la grandezza dell'artista. Il volume "Carlo Mollino. Architetto designer fotografo" è un vero colpo al cuore per i tossicodipendenti della sua opera

Nate a Torino, figlie di un antiquario torinese, Paola e Rossella Colombari sono due esperte di storia del design italiano e attualmente operano entrambe a Milano. Quaranta e più anni fa si imbatterono per la prima volta nel nome e nell’opera del mirabile architetto e designer Carlo Mollino, il quale sessantottenne era stato trovato morto nel suo studio il 27 agosto 1973 e di cui nessuno più si ricordava in quella stessa Torino dove lui aveva vissuto e lavorato.

“Colombona” e “Colombina” – i soprannomi con cui le nostre due eroine sono riconosciute dagli amici nel mercato antiquario del moderno – ci misero poco a capirne l’eccezionale qualità, che sino a quel momento era stata studiata e sottolineata solo da un ennesimo torinese esperto di design italiano, Fulvio Ferrari (attualmente l’anima del museo Carlo Mollino di via Napione). Da allora sono divenute delle cacciatrici implacabili di quelle opere, di cui a capire il rango vi basti sapere che una scrivania di Mollino, a un’asta americana di qualche anno fa, ha toccato la quotazione record di oltre sei milioni di dollari.

Esce adesso, riccamente illustrato ed edito da Rizzoli Carlo Mollino architetto designer fotografo firmato dalle due sorelle Colombari, che è come un colpo al cuore per quanti di noi sono autentici tossicodipendenti dell’opera di Mollino. Chi di voi non ha mai visto una foto da lui scattata, una qualche sua architettura o un suo oggetto di design, non sa che cosa si perde. Dire che c’è qualcosa di sacro nel suo lavoro è dire niente. In fatto di creatività, in qualsiasi linguaggio artistico si adoperasse, era nato per stupire. Si trattasse di una seggiola da lui disegnata o della polaroid che aveva scattato a una fiorente ragazza seminuda o della curvatura di un palazzo che lui aveva ideato, di sicuro non avevate mai visto mai nulla di simile.

E senza dire la misteriosità, l’orgogliosa solitudine del personaggio, i cui exploit nel tempo libero consistevano nel guidare auto da corsa o addirittura piccoli aerei monoposto. Non si negava nulla purché la responsabilità dell’agire e del fare fosse solo e interamente sua. Se un qualche cliente raffinato appartenente alla più agiata borghesia torinese gli diceva di arredare la sua casa, allora sì, ci si metteva. Di certo non disegnava una seggiola o una scrivania per poi darle a un negozio nella speranza che fossero vendute. Peggio ancora, lui vivente, il comune di Milano buttò giù un palazzo da lui architettato e di cui tutti dicono che fosse un capolavoro.

Alla sua morte scovarono in una scatola di scarpe qualcosa come 1200 polaroid scattate a ragazze che non celavano nulla del proprio corpo. Foto di cui nessuno sapeva nulla. Ragazze che lui aveva scelto andando in giro per le vie di Torino e i suoi club notturni. Un altro ed espertissimo antiquario torinese, Fulvio Ferrari, ne organizzò una mostra con vendita. Dove non entrava nessuno e finché non si presentò un personaggio notissimo, un celebre antiquario svizzero che, tanto per dire, aveva maneggiato opere fra le più importanti di Andy Warhol e del pittore americano Jean-Michel Basquiat. Lui si sedette, sfogliò a lungo gli album dov’erano contenute le polaroid di Mollino, finché non esclamò: “Le prendo tutte!”. Oggi ciascuna di quelle polaroid vale un occhio della testa. Lo dico per esperienza diretta. Sono stato una volta nello studio di Ferrari e ne ho comprate un paio. Ancor oggi non mi sono rimesso da quella spesa santa e benedetta. Quando qualche amico viene a casa mia, vede quelle foto sensuosissime e chiede da dove diavolo vengano, a sentire che sono foto scattate nella Torino notturna di sessant’anni fa allibisce. 


Non ricordo più se fosse stato Ferrari (con suo figlio Napoleone) o l’indimenticabile bibliofilo e mio amico Giorgio Maffei a organizzare trent’anni fa una cena di cui ancora conservo il ricordo. In quella casa di via Napione che Mollino aveva arredato fino all’ultimo posacenere e in cui non aveva vissuto neppure un giorno. Usammo le posate che lui aveva comprato e mai usate.

 

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