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Uffa!

Si legga Bernardi Guardi se si vuole ascoltare la voce dei vinti del fascismo

Giampiero Mughini

Uno che nel fascismo aveva creduto furiosamente, fino alla fine. Dalla memoria dell'agosto fiorentino del 44 trasse "Fascista da morire", storia di una folle e nerissima ostinazione

No, no, nell’agosto 1944 la Firenze fascista non voleva cedere agli “invasori” angloamericani senza combattere fino all’ultimo respiro, fino all’ultima pallottola. No, no, ad aspettare quei soldati c’era difatti “una distesa di tetti infuocati che non finisce più”. Ovvero i tetti delle case fiorentine su cui si erano appostati circa 300-400 cecchini fascisti, uomini e donne talvolta giovanissimi e che tenevano nel mirino dei loro fucili i nemici che avanzavano lentamente lungo i muri della capitale toscana che stavano conquistando quartiere dopo quartiere. Cecchini che quando venivano catturati e messi con le spalle al muro prima di essere fucilati gridavano “Viva Mussolini!”. Nessuno meglio di loro incarna la duplice tragedia del fascismo, il come ha vinto e il come ha perso. C’erano dei fascisti repubblichini che nel fascismo continuavano a crederci pur dopo il collasso mussoliniano del 25 luglio 1943, e che per questo sparavano dai tetti.


E’ la professione di fede di Mario Bernardi Guardi, un intellettuale e scrittore apertamente fascista che nel secondo Dopoguerra non si rinnega di un ette. Uno che dalla memoria di quei giorni dell’agosto fiorentino ha tratto Fascista da morire, un romanzo scritto in prima persona pubblicato nel 2015 e che Giampaolo Pansa aveva definito “straordinario” e “disperato”. Ho sfiorato personalmente Bernardi Guardi ai tempi del mio documentario televisivo dal titolo “Nero è bello” e m’era parso una persona per bene, oltre che un agguerrito professore universitario. Non sono tra quanti rinunciano a priori ad ascoltare la voce dei “vinti” della guerra civile italiana del 1943-1945. La voce di quelli che Bernardi Guardi chiama “i persi che hanno perduto Firenze, i bischeri dell’Italia perduta, tutti contenti di aver detto sì quando gli altri dicevano no”. Di aver detto sì alla morte per amore del fascismo sconfitto.


Della Firenze di quei momenti aveva scritto Curzio Malaparte in  un suo romanzo dell’immediato Dopoguerra, La pelle, non a caso citato da Bernardi Guardi. E se vuoi ascoltare la voce di un vinto, allora tanto vale sceglierne uno come Bernardi Guardi, uno che nel fascismo ci aveva creduto furiosamente. Uno che apparteneva a quel fascismo fiorentino che ai suoi esordi ebbe dalla sua intellettuali quali Ottone Rosai e Ardengo Soffici nonché Amerigo Dumini, il capintesta del gruzzolo di criminali che misero a morte il socialista Giacomo Matteotti, afferrato mentre andava per le vie di Roma. Ecco perché ho scelto di leggere Bernardi Guardi e il suo romanzo di osanna all’ultimo fascismo. Credetemi, cominci a percorrerne le pagine, seppure talmente di parte, e non lo molli più. Nato con la violenza, il fascismo finì nella violenza la più spietata. Quei repubblichini, di cui qualcuno aveva ancora i pantaloni corti, scelsero di morire in piedi, magari crivellati dai colpi degli aerei inglesi, come accadde al personaggio detto “Gino” che lungo tutta la durata del romanzo fa da interlocutore ideale al Guardi narrante e che non sono riuscito a sapere se corrisponda o no a un personaggio effettivamente esistito.

 
Laddove è esistito, eccome, l’altro interlocutore del narratore, ossia “Romano” (Bilenchi), uno dei più affermati scrittori fiorentini del Novecento e che esordì da fascista negli anni Venti per poi diventare comunista al tempo della guerra civile, tanto da essere poi il direttore di un quotidiano comunista fiorentino del Dopoguerra e  finché al tempo dell’invasione dell’Ungheria da parte dei russi nel 1956 non lasciò perdere il comunismo e le sue fandonie. 


Nel confronto immaginario con quei personaggi apicali della storia del fascismo sta il cuore del romanzo di Bernardi Guardi. Su tutti il confronto/dialogo con quello che definisce il suo maestro, ossia Berto Ricci, nato a Firenze nel 1901 e morto in Libia il 21 febbraio del 1941 mentre combatteva contro gli inglesi, il fondatore di una delle riviste di cultura più vitali dell’èra fascista, l’Universale, di cui purtroppo non ho mai avuto un numero fra le mani. Non puoi davvero restare indifferente all’intensità di quei dialoghi tra “vinti”, su tutti quello tra Bernardi Guardi e il Romano Bilenchi divenuto comunista, quello che ai suoi amici (meglio ancora camerati) di un tempo rimproverava di essere dei folli nel cercare di cambiare il corso della storia del mondo appoggiando la canna del loro fucile sulle tegole di un tetto.


 

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