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Uffa!
Lo spettacolo mortifero della corrida e uno dei suoi "eroi" più gloriosi
Della storia di Juan Belmonte, fondatore del toreare moderno e senza dubbio uno dei toreri spagnoli più grandi di tutti i tempi, racconta Manuel Chaves Nogales in un meraviglioso libro appena uscito per Settecolori
E’ come una festa in onore della morte, e a questo punto poco conta che a morire sia il torero oppure il toro contro cui si era schierata un’intera squadra tra banderilleros, picadores, uomini a cavallo, militi della Guardia civile pronti a soccorrere i toreri che volevano uccidere e che rischiavano di essere uccisi. E’ il mondo delle corride e delle capeas, le corride organizzate con pochi soldi nelle cittadine spagnole più piccole. Non esiste un altro paese in cui sia così vertiginosa l’offerta della morte al modo di uno spettacolo. Sto dicendo della corrida, dei suoi eroi e della loro “paura” nell’affrontare il combattimento, del linguaggio che le è proprio, parola per parola, a connotarne tutte le sfumature, di quel suo pubblico che gioisce quando vede il sangue eruttare dai corpi degli uomini o degli animali che sono stati colpiti. Non esiste marchio più forte a scandire i caratteri della storia spagnola, non esiste possibile storia spagnola se al quadro si prova a sottrarre le immagini e i valori della corrida. Non so dire quanti, ma certo sono centinaia i libri che eleggono la corrida al centro di quella storia.
E’ appena uscito in italiano per Settecolori – casa editrice che non finirò mai di decantare – un libro dedicato a uno dei più grandi toreri spagnoli di tutti i tempi, il fondatore del toreare moderno: Juan Belmonte. In un’unica stagione uccise una volta 159 tori, e lo dico, naturalmente, senza alcuna baldanza e senza sottovalutare l’orrore della faccenda. Nato nel 1892, Belmonte morì suicida nel 1962. Una Fondazione spagnola specializzata sull’argomento ha indicato il libro di cui sto dicendo come il più bello mai dedicato alla corrida e ai suoi dintorni.
Juan Belmonte matador di tori porta la firma di Manuel Chaves Nogales (nato nel 1897, era di cinque anni più giovane di Belmonte) che ci aveva lavorato negli anni tra le due guerre, quando era uno dei giornalisti spagnoli di punta. La prima edizione italiana del libro (uscita per Neri Pozza) è del 2014. Nogales era morto quarantasettenne nel 1944 a Londra, dove si era rifugiato dopo che Francisco Franco era divenuto il gran capo della Spagna – il che non poteva andar bene a un liberale come Nogales.
“Offerta vertiginosa della morte”, dicevamo. Un uomo che s’era abbigliato come per un appuntamento speciale e che si inginocchia con delle spille in mano (da conficcare nel dorso del toro a indebolirne la fisicità) a sfidare un primo, un secondo e un terzo toro non senza averli prima studiati, senza aver prima valutato i loro tempi quando scattano all’assalto, le caratteristiche delle loro corna da cui difendersi – più sbilenche sono quelle corna, maggiore è la difficoltà di pararne il colpo, e dunque maggiore è il rischio. Nogales racconta a meraviglia il debutto di un Belmonte ancora impacciato e inesperto. Quel che gli raccontano i gestori della prima plaza de toros che dovrà affrontare non è fatto per sollevare il morale: “I tori di questo allevamento schiusero la carriera di Tizio, a Caio una loro cornata strappò gli intestini; Sempronio per sei mesi lo spedirono fra la vita e la morte”. I sei tori che Belmonte si trovò di fronte nella plaza della Siviglia in cui era nato (in una via, scrive Nogales, come ce ne sono di simili a Napoli e a Mosca) erano dei monumenti da trecento chili ciascuno. E mentre l’impresario stava mirando a pagare i toreri il minimo possibile, il pubblico, temendo che la corrida non si sarebbe svolta, ululava furibondo. Belmonte ne fu impaurito più di quanto non lo spaventassero i tori. I tre toreri vennero colpiti e feriti uno dopo l’altro, era palese che quei tori fossero invincibili. A quel punto intervennero le Guardie civili e con i loro Mauser mirarono e uccisero i tori. Che bravi.
A quel suo esordio talmente difficoltoso Belmonte fece seguire una toreada eccezionale a Valencia: per lui fu un trionfo che ne fece un eroe popolare presso il pubblico dei patiti spagnoli della corrida. Novales, che scrive come se fosse lui Belmonte, la mette così: “Io ero ciò che desideravano: buono o cattivo, coraggioso o codardo, brutto o bello, simpatico o antipatico, in base a quel che desideravano l’immaginazione e il fervore delle migliaia di esseri che facevano di me l’oggetto delle loro discussioni e passioni”.