
Louis-Ferdinand Céline (WikiCommons)
Uffa!
Le stramberie dalle quali si salvò uno dei più grandi scrittori del Novecento
Tra il secondo romanzo di Louis-Ferdinand Céline e il primo dei suoi furibondi pamphlet antisemiti trascorsero poco meno di due anni, durante i quali l'autore avvertì di essere inviso alla società letteraria francese del suo tempo e ai suoi "padroni". Il nuovo libro di Maurice-Bardèche, e curato da Moreno Marchi, dedicato allo scrittore
Non c’era cosa al mondo che lui odiasse più degli ebrei e di tutto ciò che li riguardava. E’ Louis-Ferdinand Céline che parla. Lo fa in un piccolo pamphlet dal titolo, Mea culpa (1936), una sorta di anteprima dell’ancor più micidiale Bagatelles pour un massacre pubblicato nel 1937 da questo medico tedesco non ancora quarantenne, che sino a quel momento – nei suoi due libri d’esordio, il magnifico Voyage au bout de la nuit e L’Eglise – non aveva lasciato trasudare tracce di un suo antisemitismo talmente accanito. C’è che nell’Unione sovietica di Stalin lui c’era stato perché solo lì avrebbe potuto spendere i diritti d’autore che s’era guadagnati avendo venduto molto bene colà il suo secondo romanzo, Mort à crédit (1936), che invece in Francia non aveva avuto una particolare risonanza. Sono gli anni in cui un altro campione della letteratura francese, André Gide, compie a sua volta un viaggio in Urss e ne viene desolato tanto quanto lo era stato Céline. Antisemitismo a parte, perché quello resta una prerogativa di Céline che ne verrà marchiato fino in fondo anche se non al punto da inficiarne le grandezza letteraria.
Talmente grande che esiste una sorta di religione – pro Céline ovviamente in Francia ma nel suo piccolo anche in Italia, il cui capintesta è Andrea Lombardi. Da una casa editrice animata da Lombardi proviene adesso un libro immancabile per chi appartiene a quella setta, fra i quali c’è il sottoscritto. Col titolo Louis-Ferdinand Céline (la cui prima edizione francese è del 1986), curato da un altro céliniano scalzo italiano (Moreno Marchi) è appena uscito un libro che gli ha dedicato Maurice-Bardèche, il cognato di Robert Brasillach, quello che viveva con lui e con la sorella di Brasillach Suzanne divenuta sua moglie nel 1934, in un appartamentino di rue d’Ulm adiacente all’École Normale, un appartamentino quanto più di piccolo borghese ci si possa immaginare e dove io sono entrato negli anni Ottanta. Il governo francese aveva requisito nel 1945 per poi restituirlo. Bardèche e io ci sedemmo l’uno di fronte all’altro in una stanzuccia discosta dal resto della casa e parlammo a lungo del Céline degli anni Trenta e di quel nocciolo di scrittori francesi “collaborazionisti” di cui aveva fatto parte lo stesso Bardèche. Il suo cognato Brasillach era stato fucilato trentaseienne alla mattina del 6 febbraio 1945. Bardèche ne scrisse così: “La morte de Brasillach est un assassinat réussi”. Quanto a Céline, era morto a 67 anni nel 1961. Bardèche, salvo qualche mese di cella, l’aveva scampata alla sorte riservata agli scrittori collaborazionisti perché a quel tempo era riuscito a fuggirserne dalla Francia. Bardèche racconta a puntino l’esordio letterario di Céline e al tempo stesso l’esordio del suo antisemitismo a un tempo in cui ne era caratterizzato uno scampolo non esiguo della cultura francese orientata a “destra”. Nel mio viaggio a Parigi di cui ho detto avrei voluto parlare del Céline degli esordi con la sua vedova (che era ancora viva), e per questo chiesi che mi aiutasse a incontrarla all’avvocato François Gibault, forse il maggiore studioso francese di Céline su cui ha scritto più volte con acume. Non ci fu verso. Da quando erano tornati in Francia, i coniugi Céline vivevano in una villetta fuori Parigi, una sorta di fortezza inespugnabile.
Ma torniamo all’antisemitismo di Céline, uno di cui Georges Bernanos aveva scritto che all’infuori dei suoi romanzi era un pesce fuor d’acqua. Tutto della sua personalità sfociava nella sua scrittura, nella violenza della lingua che s’era dato e che usava pagina dopo pagina, deformazione linguistica una dopo l’altra. Gli editori francesi dell’epoca ne vennero terrorizzati. Tranne Robert Denoël, uno che mostrava agli amici la 42° edizione di uno dei libri di Céline da lui pubblicati, e che pagherà con la vita la sua ammirazione per Céline: sono rimasti ignoti quelli che lo uccisero in un agguato stradale nella Parigi appena liberata dai tedeschi.
Che cos’era successo in quei due anni che separano il suo secondo romanzo, Mort à crédit, dalle Bagatelles, il primo dei suoi furibondi pamphlet antisemiti? Il fatto che Céline lo avvertisse di essere inviso alla società letteraria francese del suo tempo e ai suoi “padroni”, che le vendite di Mort à crédit erano state modeste e lui ne era stato avvelenato, che si imbestialisse quando gli dicevano che il suo libro fosse un’autobiografia laddove lui era orgoglioso di avere scritto un “romanzo al cubo”, e infine il sentore di una guerra mondiale imminente e lui era convinto che a progettarla fossero innanzitutto gli ebrei da quanto erano ricchi e perciò potenti nella politica di tutto il mondo. Stramberie, e ho detto niente. Nelle quali riuscì a non affogare letterariamente uno dei più grandi scrittori europei del Novecento.