Lucio Battisti (Ansa)

uffa!

Anche Battisti aveva dubbi sulla sua voce, fortuna che Mogol l'ha convinto

Giampiero Mughini

Gli 80 anni del cantautore e il libro di Assante, da leggere in piedi

Quanto alla sua grandezza e originalità nel quadro della moderna canzone italiana, non smetteremo mai di dare a Lucio Battisti quel che gli spetta di diritto. Chi può aiutarci alla bisogna meglio del critico musicale Ernesto Assante, lui che ha appena pubblicato un Lucio Battisti (Mondadori, 2023) che va letto in piedi in segno di rispetto per il cantautore nato a Poggio Bustone nel 1943 e morto cinquantacinquenne a Milano nel 1998 dopo aver venduto 25 milioni di copie dei suoi dischi. Eppure ce ne volle di tempo – Assante lo racconta magnificamente – perché gli editori delle canzoni musicate da Battisti (e da Giulio Rapetti Mogol messe in parole) si convincessero che nessun altri meglio di lui era atto a interpretarle e valorizzarle. A tutta prima furono numerosi i critici musicali che gli rimproveravano apertamente di cantare male; meno che mai pensarono che dovesse cantarle lui i dirigenti delle case di edizioni musicali cui il Battisti poco più che ventenne cominciò a sottoporre le sue canzoni. Mogol ha raccontato che dovette insistere per convincere Battisti a cantarle, da quanto lui stesso era dubbioso se farlo

   
Prendiamo quel capolavoro su tutti dal titolo Non è Francesca, la canzone il cui spunto narrativo era stato ispirato a Battisti da un fatto reale. Dall’essersi trovato in compagnia di amici uno dei quali andava declamando a un altro, di nome Renato, che la sua donna l’aveva vista abbracciata a un uomo. “Ma no, non è possibile”, ribatteva Renato. (“Francesca non mi ha mai chiesto di più. Lei vive per me”, canterà Battisti a renderci estatici). Al che tutti e due continuarono a contrapporre la rispettiva versione dei fatti, che sì la ragazza vista in compagnia di un uomo era proprio quella, che no non poteva essere lei. (Tra parentesi, quando nei miei vent’anni ascoltai per la prima volta Non è Francesca pensai a mia volta a uno che mi aveva detto di aver visto la mia fidanzatina di allora – si chiamava Anna – in compagnia di un altro uomo, e io che speravo non fosse stata lei. “Non è Anna. Lei vive per me” mi dicevo, anche lei una bionda come la Francesca della canzone di Battisti). Ebbene Non è Francesca venne affidata nell’autunno del 1967 a un gruppo musicale beat formatosi a Milano nel 1965, i Balordi. Cantata da loro in un 45 giri della Durium la canzone non fece né caldo né freddo a chi la ascoltò. Battisti fu lui a cantarla un paio d’anni dopo, in un 45 giri che verrà più volte riedito dalla Ricordi, la casa editrice che così a lungo aveva dubitato delle qualità canore del cantautore. Quanto a me, quando ascoltai per la prima volta Non è Francesca cantata da Battisti mai e poi mai pensai che testo e musica della canzone potessero essere disgiunti da quella voce un tantino roca e spezzata. Della meravigliosa versione offerta da Battisti, Assante sottolinea l’inarrivabile potenza espressiva della seconda parte della canzone, quella tutta strumentale al modo di un brano di rock progressivo: “Infatti la parte cantata del brano termina dopo un minuto e quarantaquattro secondi. A questo punto, in maniera del tutto inattesa, partono due ulteriori minuti e dieci secondi di musica. Dove una band rock, una sezione di flauti, una bella serie di nastri al contrario con la chitarra di Andrea Sacchi, la batteria di Gianni Dall’Aglio in primo piano assieme al basso di Damiano Dattoli e una sezione d’archi danno vita a una coda musicale che è quasi un pezzo a sé stante”.

   

Lucio Battisti (LaPresse)
   
Beninteso tutto dell’epopea di Battisti si avvia nel 1965 a partire dal suo specialissimo rapporto con Mogol (nato nel 1938, di 5 anni più grande di Battisti), il quale si mette a scrivergli le parole delle canzoni di cui lui ha ideato la musica, quel che Mogol aveva già fatto o avrebbe fatto per Caterina Caselli, Adriano Celentano, i Dik Dik, Bobby Solo e molti altri. “Lucio stava sul divano con la chitarra, io sul tappeto con carta e penna”, ha raccontato di recente Mogol sul Corriere della Sera. Fatto è che nel 1969 Battisti partecipa per la prima e unica volta al Festival di Sanremo con una canzone dal titolo Un’avventura, che finirà al nono posto al tempo in cui ancora sono in molti a storcere il naso innanzi alle sue esecuzioni vocali. Natalia Aspesi, di solito accuratissima, scriverà di “chiodi che gli stridono la gola”.

    
Dimenticavo. C’è un tratto che contrassegna il Battisti di questi anni e di quelli immediatamente successivi, il fatto che lui non è orientato a sinistra come tanti dei suoi colleghi di allora. Non gli interessa proprio. Quando lo chiamano a rispondere alle domande dei giovanissimi che affollano l’uno o l’altro studio radiofonico degli anni 1969-1970, e glielo chiedono imperiosamente se lui si reputi un cantante impegnato o meno, lui risponde così: “Ma che impegnato, io sono disimpegnato, dis-tutto. Tranquillo proprio”. No, no, lui non vuole passare da intellettuale, Battisti è soltanto uno che ama la musica, che la vive, che ce l’ha dentro, che la vuole trasmettere a chi è venuto ad ascoltarlo. E difatti quando canta in pubblico, non dice una parola che sia una, non spiega nulla, non annuncia nulla. Solo canta. Per fortuna di noi tutti che lo ascoltammo e che non ci stanchiamo di riascoltarlo. E a proposito di quel Battisti lì, del sopraffino autore/interprete del disco Emozioni pubblicato nel dicembre 1970, diciamolo con le parole di Assante: “C’è un’interpretazione che, possiamo dirlo con certezza, nessun cantante italiano ha mai eguagliato. Battisti vola, soffre, si inabissa, si solleva, piange; e per chi ascolta è tutto reale”. E’ il tempo, racconta Assante, in cui la musica rock nell’entrare a far parte della creatività musicale diffusa di ciascun paese, ne attinge le caratteristiche culturali e musicali. E’ il trionfo del progressive rock, del comparto forse il più strepitoso della musica del Novecento. Grazie, Battisti.

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