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Terrazzo 

Roma più amara senza i suoi caffè

Giacomo Giossi

Ora che la Capitale di domani sta sempre più assomigliando alla Milano di oggi, ecco che il Caffè Greco chiude. Resta solo una malinconia turistica che vale per i romani, che tra l’altro in quelle zone nemmeno risiedono più, al massimo un’alzata di spalle

Il Giubileo sembra aver portato a Roma un’ansia performativa fino a oggi sconosciuta. Tutto va rinnovato e cambiato, anche se i segni più evidenti di questa declamata renaissance sembrano limitarsi a una collezione un po’ sparsa e a tratti già stortignaccola di elementi di arredo urbano, grande vanto del Gualtieri sindaco social. Così mentre Roma avanza a passo di danza nel futuro, tra social hub a San Lorenzo, giochi d’acqua a San Giovanni e il più grande parco fluviale d’Europa e forse del mondo intero, ecco che si perdono dei pezzi che parevano inestimabili, ma di cui forse non importa più molto a nessuno. Ora che la Roma di domani sta sempre più assomigliando alla Milano di oggi, soprattutto in centro storico, dove aumentano in maniera assurdamente spropositata i pizza chef (la cui qualità è tutta da mettere alla prova) al posto dei pizzettari e dei forni tradizionali ecco che dall’oggi al domani il Caffè Greco chiude.

 

Pazienza si dirà, nonostante le vesti stracciate di qualche isolato cultore, anche quella parte di storia di Roma era già da tempo campo esclusivo del turismo che pascola allegramente sciabattando (anche d’inverno) su e giù per Via Condotti. Così la rassicurazione che l’Antico Caffè Greco riaprirà più bello, più vero, più tradizionale di prima, lascia tutto sommato indifferenti per quanto sconsolati visto che nemmeno più il caffè nelle sue infinite declinazioni all’italiana sembra più avere senso di luogo e di tempo, ora che anche quel rito si è netflixizzato, perché per davvero, dopo anni di annunci, “il caffè a casa è buono e anche più di quello del bar”. Quello che resta è, così, solo una malinconia turistica che vale per i romani, che tra l’altro in quelle zone nemmeno risiedono più, al massimo un’alzata di spalle. Tanto poté il caffè in capsula. A dimostrare che non è un fatto isolato, ecco che piomba plumbeo su piazza Esedra lo sfratto per la storica pasticceria siciliana Dagnino che da settanta anni domina gli spazi della Galleria Esedra. Luogo amato dai cinematografari di tutte le generazioni (è possibile intravederla in una bella sequenza di Fuori di Mario Martone), dai dirigenti della vicina Banca d’Italia come dai seriosi frequentatori del Palazzo delle Esposizioni, Dagnino con il suo soppalco, che dal 1954 invita a incontri riservati sia di tipo amoroso che di carattere spionististico, gode degli affreschi di Alfonso Amorelli e del murale realizzato dalla scultrice Helga Schaffer.

 

Dall’alba al tramonto Dagnino offre, almeno fino al 31 dicembre, gioia e rassicurazione con le sue cassate e le sue paste fuori misura, soprattutto per chi, uscendo dalla stazione Termini, arriva a conoscere Roma partendo dal nord Italia. Migranti al contrario che trovano finalmente una risposta sensata alla parola “dolce” capace di andare oltre il tipico Varese e le frolle molli della nebbiosa pianura padana. L’intellighenzia romana ha prodotto una petizione su change.org che ha il sapore délabré di un post su Facebook, ma anche un’affinità con l’esausta delicatezza di un luogo che, in un mondo in fiamme, offre ancora un po’ di consolazione.

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