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Perché Starbucks si ridimensiona in America e trionfa in Italia
Se nei primi anni 2000 aprivano negozi del gruppo delle caffetterie in ogni dove, ora il Ceo Brian Niccol, arrivato l’anno scorso, ha deciso di chiudere almeno un centinaio di punti vendita tra Usa e Regno Unito
C’è una vecchia puntata dei Simpson – quando ancora facevano ridere – dove i protagonisti sono in un centro commerciale e dicono: “facciamo in fretta a fare shopping che tra poco tutto diventerà uno Starbucks, qui”. La catena di caffetterie di Seattle, che ha creato quel suo ibrido vocabolario pseudoitalico per le misure – tall, grande, venti – ed è diventata una presenza obbligata per le basic white girl millennial dell’Instagram con le sue tazze di carta, non sta messa tanto bene. Se nei primi anni 2000 aprivano negozi in ogni dove – aeroporti, campus, hotel, Trump tower e ogni main street d’America – ora il Ceo Brian Niccol, arrivato l’anno scorso, ha deciso di chiudere almeno un centinaio di punti vendita tra Usa e Regno Unito. Niccol è noto perché, non volendo abbandonare la sua casa californiana – vuoi mettere col clima del nord? – quando è stato assunto è riuscito a negoziare il pendolarismo sul jet aziendale Newport Beach –Seattle in giornata. Tranquilli, ha detto Niccol, dopo le chiusure resteranno comunque oltre 18mila caffetterie tra Canada e Stati Uniti. Si pensa che i responsabili della ristrutturazione commerciale siano: la l’inflazione, il ritorno del fascino di bodegas e baretti indipendenti, e il boba, quel tè asiatico con dentro le palline nere da succhiare con mega cannuccia (altro segnale della supremazia asiatica dopo il Nobel a Han Kang e l’Oscar a “Parasite”).
Dei negozi in chiusura l’8,5 percento sarà a New York e i sindacati sono già sul piede di guerra – “non ci hanno avvertiti”, dicono – tanto quanto gli hipster di Brooklyn e i broker di Manhattan che intervistati dal New York Magazine hanno detto: “toglietemi tutto ma non il mio iced latte di soia con quattro shot di espresso!”. Una mamma ha portato la notizia della chiusura del loro Starbucks di riferimento alla figlia, come se fosse morto qualcuno. La bambina ha fatto a mano un bigliettino per salutare la sua barista, e qualcuno pensava a un memorial coi fiori, come si è fatto per Charlie Kirk. Hanno un altro Starbucks a cinque minuti a piedi “ma l’atmosfera non è la stessa”. Gente che piange perché dice: “in quello ci ho conosciuto mia moglie!”.
Starbucks era diventato un trademark americano più riconoscibile degli Yankees e di John Wayne, nuovo strumento del soft power statunitense in declino. Tutti in Italia, innalzando come stendardo lo snobismo caffeinomane dell’espresso in tazza piccola, dicevano che non ce l’avrebbe mai fatta a prendere mano nella penisola. E invece dopo gli esperimenti milanesi e gli avamposti a due passi dal ponte di Rialto e da Montecitorio (anche i deputati oggi postano su Instagram), la catena ha aperto pure a Padova e a Campi Bisenzio e alla stazione di Napoli, conquistando la provincia. Gli Starbucks chiudono a New York e aprono a Livorno. Saranno da ringraziare i ragazzini social, o forse l’overtourism, e chi arrivato dal Texas sente la mancanza di quelle 500 calorie zuccherose di un Frappuccino Caramel macchiato da 7 euro (il prezzo di due spritz) mentre passeggia per piazza San Marco. Un po’ come il memetico Salt Bae, il turco che sparge sale sulle bistecche dorate da 230 euro, che chiude a Londra e apre a Brera, invitando il presidente del Senato all’inaugurazione.