
Google Creative Commons
Terrazzo
Le mani in pasta (d'argilla) di Gordon Baldwin
Il ceramista e scultore scomparso, pur avendo avuto una carriera artistica di rilievo, non smise mai di insegnare: una coerenza quasi commovente, oggi che anche i professori fanno i reel
L’ultima eredità della pandemia, dopo il pane fatto in casa, i cinema svuotati e l’abbraccio diventato pratica ad alto rischio, è stata la mania del “fare con le mani”. Una specie di mindfulness applicata – in pieno qui ed ora - più elegante del decoupage e meno compromettente del pilates. E così, mentre i guru della Silicon Valley parlano di “digital detox”, in Italia e nelle grandi città europee il vero lusso è infilarsi un grembiule, sporcarsi le mani e fingere, per un paio d’ore, di essere tornati apprendisti in una bottega rinascimentale.
Non c’è bambino privilegiato che non debba incastrare un’ora di tornio tra il pianoforte e l’equitazione, né adulto in crisi di mezza età che non trovi nella ceramica una forma di rinascita personale, con tanto di post Instagram (“clayday” ma anche “claydate”). Il modellare la creta come alternativa alla psicoanalisi: costa meno, sporca di più, e dà risultati più tangibili, magari anche dei frisson erotici (alla “Ghost”). Eppure, in Italia, questa pratica resta sospesa in una zona ambigua — non è davvero arte, non è davvero mestiere. L’Accademia la parcheggia tra scultura e design. Nelle scuole superiori la ceramica sopravvive come curiosità ottocentesca: l’Istituto Caselli di Napoli, erede della Real Fabbrica borbonica della Porcellana, oggi è classificato dal Ministero come “istituto raro”, che non si sa cosa voglia dire. A Faenza, la storica scuola del Ballardini — che ha formato generazioni di artigiani — è stata inglobata, nel burocratese della Buona Scuola, da altri indirizzi.
Nei Paesi del Nord Europa, invece, più protestanti e pragmatici, la ceramica ha rango accademico. All’Eton College (quello britannico dei principi e dei primi ministri), il dipartimento d’arte è stato a lungo diretto da Gordon Baldwin, ceramista e scultore scomparso novantaduenne quest’anno, celebrato con un lungo obituary sul Guardian. Baldwin insegnava pottery dal 1957, e i suoi allievi lo ricordano come un docente incoraggiante. Pur avendo avuto una carriera artistica di rilievo, non smise mai di insegnare: una coerenza quasi commovente, oggi che anche i professori fanno i reel.
A Milano, la fondazione Officine Saffi - nata per valorizzare la ceramica nel mondo dell’arte contemporanea - gli dedica ora la mostra Little hard clouds becoming vessels. In esposizione, fino al 23 dicembre, alcuni dei suoi vessel, parola da non tradurre volgarmente con “vasi”: semmai forme levigate, eteree, apparentemente calme, in molte segnate da una fessura. Un invito a guardare dentro come se l’argilla custodisse scarabei di Wittgenstein o altri misteri metafisici. Alle pareti, invece, una serie di carboncini. Negli ultimi anni Baldwin, con la vista ormai compromessa, aveva abbandonato la ceramica per tornare al disegno, ma - come mise in chiaro in un’intervista - “I don’t do art therapy”. Intanto fuori, nelle aule della fondazione, si tiene l’ennesimo corso di ceramica per bambini. Madri impazienti scattano foto ai manufatti ancora caldi di forno, pronti per la chat delle mamme. E viene da pensare che forse il vero vessel non contenga nulla: solo la prova che la pazienza - quella che si cuoce lentamente - è l’unico oggetto che oggi nessuno vuole più fabbricare. Altro che “qui e ora”.