
Terrazzo
Diane Keaton, indimenticabile icona (anche del mattone)
L'attrice scomparsa a 79 anni, figlia di un agente immobiliare, era una grande appassionata di case. Tre libri, e molte ristrutturazioni
Cosa c'entra Diane Keaton con il modello Milano? Ci arriviamo. L’attrice mancata sabato non era soltanto “l’unico pubblico per cui facessi i miei film” come ha raccontato ieri Woody Allen in un commovente pezzo su “The free press”, e secondo cui “il perché ci siamo separati lo sanno solo Dio e Freud”. E non era solo l’inventrice di un look strategico due volte, primo perché il vestirsi sempre identici, dalla Regina Elisabetta a Andy Warhol, ti rende in automatico “igona” senza tempo, e non ti invecchia mai; secondo perché quella che era “probabilmente la donna più coperta nella storia dell’abbigliamento” come ha ricordato invece anni fa Meryl Streep, aveva capito che cominciando a coprirsi da giovane nessuno si sarebbe stupito di vederla bardata da anziana, il contrario insomma delle ottantenni botoxate e nude con le braccia penzoloni.
Amata e ammirata da tutti, era anche “una vera californiana”, come ha detto il governatore Gavin Newsom. Nel frattempo lo stesso Newsom ha annunciato una legge attesissima nel Golden State, che permette di costruire in determinate aree palazzi fino a nove piani con meno regole. Una specie di “modello Milano”, appunto, e non si sa se basterà la Scia e se ci sarà lo zampino di Catella, ma la California ha una storica carenza di abitazioni. Oltre ai centri direzionali, però, pochi vivono o vogliono vivere nei grattacieli che ospitano più famiglie. Così la legge è stata subito avversata, anche perché le residenze plurifamiliari oltre a ledere l’immagine cartolinesca-cinematografica della California fanno calare i prezzi delle case esistenti (tra i più alti d’America, quello mediano è quasi novecentomila dollari per abitazione): dalle “victorians” di legno di San Francisco che evocano subito Hitchcock e delitti più o meno hippy alle villone di cemento losangeline o anche in versione Richard Neutra, che inventò la palazzina signorile su pilastrini di ferro, partendo dal garage e costruendoci la casa intorno. Pochi grattacieli “firmati”, in tutta la California, archistar non ammesse se non per musei rigorosamente orizzontali. Il De Young a San Francisco che celebra in questi giorni i vent’anni, fatto da Herzog & De Meuron che strapparono la committenza a Renzo Piano, oppure i vari Gehry a Los Angeles (con villetta sua propria a Santa Monica), e il magnifico Louis Kahn a La Jolla, più giù.
Insomma, tornando a Diane Keaton, si era capito che non stava bene e che il decorso della malattia sarebbe stato rapido non solo dalla mancanza di articoli decenti su nessun giornale del globo fino a domenica (non c’era pronto il coccodrillo) ma anche dal fatto che a marzo scorso era stata messa in vendita la sua ultima casa, ultima di una lunga serie perché Keaton era una grande appassionata di mattone. Figlia di un agente immobiliare di LA, che accompagnava da bambina durante le visite e gli open house, oltre a film e outfit memorabili e all’invenzione di un modello di donna assertiva metropolitana con bombetta che piaceva molto a certi maschi e ne metteva in fuga altri, modello che poi abbiamo visto replicato in molte amiche delle nostre mamme (anche senza bombetta), si è prodotta in tre libri (da tavola) di design.
L’ultimo, dal titolo ovviamente keatoniano, è del 2017: “The House that Pinterest built”, edito da Rizzoli Usa, qualcosa come “la casa costruita da Pinterest” (sopra). “Un tempo i collezionisti, gli artisti del collage e i drogati dell’immagine come me erano dei cacciatori solitari”, scriveva nell’introduzione, “Oggi miliardi di persone possono scoprire tutta la bellezza condivisa dagli altri e appropriarsene”. Insomma copiando da Pinterest sosteneva di aver disegnato questa casa-fattoria con fienile e tecnologie antisismiche e antincendio. Tutta di mattoni, seguendo la passione per la fiaba dei Tre porcellini, raccontò lei, in stile un po’ ristorante romano degli anni Novanta, diciamo noi. Possiamo dire anche che non ha proprio finito in bellezza, rispetto alle magnifiche proprietà che comprava, ristrutturava e poi rivendeva con piglio professionale e come i veri drogati dell’immobiliare (che invidia!). Tra queste, un appartamentone nel complesso The San Remo affacciato su Central Park a New York e molte ville a Los Angeles, con una predilezione per i Lloyd Wright.
Ha posseduto infatti tra le altre la Samuel-Novarro House (sotto), una villa commissionata nel ’28 dall’attore Ramon Novarro al figlio di Frank Lloyd Wright, grande palazzinaro (in senso letterale) hollywoodiano, autore di residenze molto amate dalla gente di cinema (come quella di David Lynch, che pure è in vendita, dopo la morte del regista quest’anno). Poi Keaton ha comprato la Newman House sempre di Lloyd Wright jr, che era stata fatta nel 1950 per Alfred Newman, compositore di colonne sonore premio Oscar, tra cui quella per “Eva contro Eva”. 400 metri quadri, cinque camere da letto, tre bagni, piscina, Keaton l’aveva presa nel 2007, restaurata in maniera filologica e rivenduta dopo due anni. Il destino ha voluto che la sua ultima abitazione fosse però quella di Pinterest. Non si sa nulla appunto della malattia, tranne che aveva passato diversi mesi a Palm Springs perché la casa diPinterest nonostante le tecnologie doveva essere riparata per i danni dei recenti incendi, e quando è tornata è apparsa subito molto magra e sofferente.
“Non capirò mai perché l’architettura sia considerata una cugina di secondo grado della pittura e del cinema”, sosteneva lei. Era stata per vent’anni membro d’onore della L.A. Conservancy, il Fai losangelino, che ieri l’ha ricordata con commozione, e secondo cui “le case erano la sua prima passione”. Tra le sue battaglie, quella per salvare la Ennis House, la colossale villona in stile post-Maia degli anni Venti sulle colline di Hollywood, progettata dal Frank Lloyd Wright (finalmente) padre e già set di “Blade runner”. Keaton fece appello al cuore e ai portafogli dei cinematografari locali, e ci riuscì. Altre volte invece fallì, come per l’Ambassador Hotel, un edificio storico del ’21 dove tra l’altro fu assassinato Bobby Kennedy; e che alla fine fu tirato giù nonostante un suo appello: “Gli edifici storici non li riutilizziamo, e quando abbiamo finito con loro li buttiamo via”, scrisse sul Los Angeles Times. “Li trattiamo come buste di plastica” (a Milano, sacchetti, vabbè).