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Terrazzo
Arrivederci, Bundesbank
Da spauracchio d'Europa a complesso d'appartamenti. Il restauro del palazzo della "Buba" costa troppo. E la Germania non è più locomotiva d'Europa
Ah, la Bundesbank. Per noi nati nel Novecento, la Banca centrale tedesca era fondamentale nei Tg e sui giornali: nella eterna crisi italiana, la “Buba” come veniva chiamata in patria, era il grande spauracchio e anche il grande castigatore di comportamenti da cicale sudeuropee. I nomi dei presidenti come Schlesinger (morto l’anno scorso a 100 anni) o Tietmeyer facevano nitrire i cavalli meridionali della libera e gioiosa spesa pubblica in disavanzo. La Buba era infatti il grande tempio della “stabilità dei mercati”, cioè risparmiare, pagare le tasse, stampare poca moneta. Questa grande guardiana della virtù risparmistica nazionale ed europea era sorta nel 1957 sulle macerie e sulle ossessioni di un paese, la Germania, che ancora ricordava la sua Weimar, non quella felice dei racconti di Isherwood e di “Cabaret” bensì quella dell’iperinflazione che poi avrebbe condotto al nazismo (anche se qualche suo presidente ebbe una rutilante gioventù nazi). E dunque le banconote da 1000 miliardi di marchi, e il caffè che aumenta del 60 per cento dal momento in cui viene ordinato al bar a quando viene bevuto. E dunque Buba: e sai cosa bevi.
Otmar Emminger, altro celebre presidente: “L’inflazione dev’essere combattuta, come le dittature, prima che si sia radicata”. Così nacquero i falchi tedeschi: che non si limitavano ai confini nazionali ma vegliavano, spesso inutilmente, pure sugli altri e soprattutto su noi cugini “di giù” spendaccioni. A noi vicini che chiedevamo tassi di interesse più bassi, un po’ di moneta, un po’ di pensioni, un po’ di joie di vivre, seguiva regolarmente il “nein”, espresso anche con sadismo da quei gessati e doppiopetti fin al dodicesimo e tredicesimo piano del palazzone (i presidenti secondo la leggenda salivano fin su ai loro uffici a piedi, per rimanere in forma e non utilizzando il terronico ascensore). Jacques Delors, francese presidente celebre della Commissione europea: “Non tutti i tedeschi credono in Dio, ma tutti credono nella Bundesbank”. Per gli italiani specialmente la Bundesbank e i suoi falchi e il grande marco tedesco erano un nemico-divinità da fumetto (la “cultura della stabilità” tedesca contribuì a far uscire la lira dal Sistema monetario europeo nel 1992, più che Soros). Dalla cultura della stabilità alla cultura pop: leggendario il Christian De Sica vanziniano: “aho, davanti al marco tedesco m’arendo. Poi tutto a un certo punto crollò: la creazione della Bce, certo, a immagine e somiglianza della Bundesbank, per tranquillizzare il fragile ego germanico; e poi la terronizzazione del tutto, culminata nel “whatever it takes” draghiano, dunque via ai cordoni della borsa, fino alla (impensabile allora) Germania di oggi che non solo non è locomotiva, ma è pure in piena recessione.
E oggi anche la Bundesbank rischia. Nel senso proprio del palazzo. Il mammozzone lungo 217 metri e largo 17, alto 54, un Corviale francofortese, venne costruito in stile brutalista tra il ‘67 e il ‘72. Se l’esterno è grigio e prevedibile come la missione della Banca, gli interni sono degni di un “Mad men” tedesco: tavoli ovali di Eero Saarinen, sedie di Mies van der Rohe, soffitti colorati e pregevoli opere d’arte di Vasarely e Baselitz, stranamente multicolor, il tutto poi ampliato in una collezione che comprende anche Anselm Kiefer. E la sala conferenze all’ultimo piano con 582 dischi colorati. E le riserve d’oro, naturalmente.
Adesso tutto questo non si sa che fine farà, scrive il Financial Times: dal 2021 il palazzo è stato svuotato, e i 5400 dipendenti spostati in un grattacielo per un progetto di restauro che prevedeva la bonifica dall’amianto, i necessari aggiornamenti tecnici dopo 50 anni (l’aria condizionata era presente solo negli ultimi due piani, forse sempre per il solito sadomasochismo) e anche un ingrandimento del tutto. Ma i costi sono lievitati a dismisura: si cominciò a parlare di ristrutturazione nel 2016, con un budget di 3,6 miliardi, ma poi per l’inflazione – clamorosa nemesi - del dopo Covid la spesa arrivò presto a 4,6 miliardi. Da allora i progetti (che prevedevano anche l’ulteriore costruzione di un “campus”) sono stati tagliati fino a 3,3 miliardi. Ma è ancora troppo. Nel frattempo ci si è messa pure la burocrazia, col palazzo che è stato vincolato dalle belle arti, dunque altre complicazioni, e la Germania soprattutto è entrata in crisi. Con ulteriore e definitiva nemesi, adesso è proprio la Germania a dire no alla sua Bundesbank troppo spendacciona. Nein; il governo di Berlino ha bocciato il piano di restauro, e tra i vari progetti circola quello di trasformare piuttosto il tutto in un più redditizio complesso di abitazioni o hotel. Ci manca solo che ci mettano un ristorante italiano.