(Tim Graham Photo Library via Getty Images) 

Terrazzo

Vita e opere di Léon Krier, l'architetto del Re (Carlo)

Michele Masneri

Poteva diventare uno dei tanti Koolhaas, Jean Nouvel, Zaha Hadid, tutti suoi compagni di strada degli inizi, invece aveva deciso di essere un bastian  contrario. Odiava i grattacieli e amava la palazzina romana. 

Con Léon Krier, mancato martedì scorso nella sua casa di Palma di Maiorca, se ne va l’ultimo grande archi-reazionario, l’anti archistar che progettava villaggi inglesi “come una volta” e che odiava i grattacieli. E’ morto nel paradiso della  sua Palma, ed era nato nato nel paradiso fiscale del  Lussemburgo, nel ’46. Poteva diventare uno dei tanti Koolhaas, Jean Nouvel, Zaha Hadid, tutti suoi compagni di strada degli inizi, invece aveva deciso di essere un bastian  contrario, una specie di Barney Panofsky dell’architettura. “Tutti i miei amici mi si sono rivoltati contro!”, raccontava, incluso il grande James Stirling suo maestro che lo apostrofava: “Lavori con Charlie Long Ears!”. Charlie Long Ears non era poi altri che Carlo d’Inghilterra, futuro Re, che col suo fervore antimoderno aveva trovato in Krier il suo più prestigioso alleato. 


Facendo ricerche per questo articolo mi sono imbattuto in fantastici repertori di foto di una  visita della famiglia reale al completo (Elisabetta, Filippo, Carlo e Camilla) nel 2016 a Poundbury, il villaggio finto ma “più vero del vero” che Krier aveva disegnato su volere (e sui terreni) del futuro sovrano nella sua  Cornovaglia. E chissà quanto le avrà rotto le scatole, Carlo, alla mamma, per presenziare a quell’esperimento urbanistico, che fece inorridire i puristi, ma che funziona ancor oggi molto bene: una specie di Milano 3, poche macchine, tanto verde, nessun grattacielo. “Nessuno ci credeva, ma oggi l’esperimento è perfettamente riuscito”, ha detto Carlo, parlando da sovrano ma anche da XXIV duca di Cornovaglia. 


C’era lo zampino di Krier, sulfureo suggeritore, anche dietro il libro dell’allora principe di  Galles, “Uno sguardo sulla Gran Bretagna. La mia concezione dell’architettura”, del 1989, tradotto in italiano da Frassinelli. E’ il manifesto in cui il principe aveva messo nero su bianco tutte le sue critiche alla modernità architettonica. Insieme erano una strana coppia da commedia: l’architetto lussemburghese con la sciarpona  e l’accento germanico, e  il principe inglese ossessionato dalle tradizioni. Insieme combattevano, mi raccontò in un’intervista qui sul Foglio anni fa, non solo contro la modernità ma  contro i “ventuno consiglieri  del Prince’s Council, il consiglio reale, gli uomini grigi che nei loro gessati di Savile Row e nelle Rolls-Royce nere”, gli mettevano i bastoni tra le ruote. Krier doveva  falsificare le slide dei progetti per convincere i consiglieri del principe a non modificare le architetture tradizionali che piacevano al real committente e che loro non volevano. Anche – in perfetto stile Downton Abbey – Krier era uno di quegli amici-saggi che presenziavano nella tenuta di Carlo a discutere d’arte e architettura fino a notte fonda, quelli che Diana avrebbe voluto ammazzare, per partire invece magari per Ibiza.  Charlie Long Ears era diventato il suo mecenate dopo l’incontro a una mostra nel 1987. Da allora appuntamenti “come carbonari, alle due di notte in case di amici comuni”, per progettare quella che sarebbe diventata la sua opera più famosa e controversa: il villaggio neotradizionale subito bollato dal Guardian come “Disneyland feudale”. Anche un po’ outlet di Valmontone, diciamo noi. Ma il villaggio funziona, si rivaluta, crea posti di lavoro. 

 

Al contrario del grattacielo, nemico pubblico numero uno, come quelli che infestavano Londra, detestati da Carlo.  Krier e il suo sovrano teorizzavano che “A Londra hanno fatto più danni le archistar delle bombe naziste!”. Poi era stato Krier ad essere accusato di filonazismo, perché aveva osato scrivere un libro su Albert Speer, l’architetto di Hitler. “Così venni a Roma per un po’ , mentre sbolliva la polemica”.  A Roma c’era il simmetrico del grattacielo, la palazzina. Oggetto urbanistico dei sogni. “La palazzina è un genere di architettura perfetto, umano, la gente parla coi vicini dalla finestra. Si trova in varie parti del mondo, ad Atene, in Guatemala. Ma le più perfette sono a Roma. Ai Parioli e soprattutto alla  Garbatella. La Garbatella è magnifica”, mi disse. Il grattacielo invece era  la forma di edificio che più di tutti odiava: serve solo a far guadagnare i costruttori. “Oggi gli mettono due fiori sopra e dire che sono pure sostenibili”. 
Ma  se Carlo voleva demolire i grattacieli, gli architetti volevano demolire il re . Richard Rogers scrisse in un articolo proprio intitolato “Tearing down the Prince”, tirar giù il principe, sul Times: “Non credo che il principe del Galles capisca qualcosa di architettura”. Ma Rogers venne poi fatto lord, e Krier ebbe solo un’onorificenza. “E’ vero, ma perché non sono nato in Inghilterra”, scherzava lui. “Per essere lord bisogna essere inglesi. Mi hanno dato però l’ordine della regina Vittoria, una fascia stupenda per i servigi resi al sovrano”.  

 

Tra i servigi, dpo Poundbury c’era un progetto per costruire Spitalfields, un’altra cittadina tradizionale, ma non ha fatto in tempo. Ci disse che era al lavoro anche su un progetto in una università in Texas voluta dai siliconvallici trumpiani Elon Musk e Peter Thiel, che per qualche motivo sognano Marte ma investono su Milano 3. 

 

Ma era a  Roma che amava stare, più che in Texas: qui aveva una fan base capitanata dall’on. arch. Fabio Rampelli, vice presidente della Camera, il Bruno Zevi di Colle Oppio, che ha dato la notizia del decesso l’altro giorno. Krier era “l’alfiere di un’altra idea di città, sostenitore dell’architettura tradizionale. Voce libera che ha portato aria fresca in un ambiente stantìo nel quale il conformismo ideologico imponeva a tutti gli architetti, comprese le archistar, di disegnare gli stessi progetti a ogni latitudine del mondo”, ha scritto Rampelli.  Ma se Rampelli ama l’Eur e vorrebbe portare a termine l’Arco di Libera che nei progetti mussoliniani doveva unire le due sponde della Colombo, Krier lo scavalcava a destra. Per lui l’Eur era già troppo moderno (“Non capisco perché Piacentini non si sia dedicato piuttosto alle palazzine”).  Nel 2010 il sindaco Alemanno coinvolse Krier negli Stati Generali della città e c’era un piano ambizioso per rifare Tor Bella Monaca, ma poi non se ne fece niente. “Un costruttore mi avvicinò e mi disse: ma non hai capito che a Roma comandiamo noi, e non gli architetti?”. E qui non c’era un Re a dargli una mano. 


 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).