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Terrazzo

I giorni italiani di Richard Avedon

Giulio Silvano

Nel dopoguerra italiano, il giovane fotografo americano immortala un Paese distrutto ma vitale, tra miseria e sceneggiate di strada. Le sue foto inedite raccontano un’Italia pre-boom, tra clown e bambini scalzi, ora in mostra a Roma

C’era un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui arrivare a Termini faceva lo stesso effetto di quando si esce oggi da qualche aeroporto di un paese in via di sviluppo. I bambini campano raccogliendo mozziconi di sigarette dalla strada e ti circondano sorridenti sperando in qualche monetina – la cosa migliore che possa succedere alla loro esistenza è che finiscano nei film neorealisti. È in quella situazione che arriva un giovane Richard Avedon a Roma, quando alla fine del 1946 si è appena abbandonata la monarchia. Giovanissimo, lui fa le fototessere per la marina mercantile statunitense di stanza nella penisola. E così, in un periodo in cui nessuno pensava al viaggio – al massimo per tornare da qualche campo di prigionia dall’Urss o dalla Germania – lui ventitreenne gira a spese sue per le città, fino alla Sicilia, a Venezia, salendo sui treni sopravvissuti alle incursioni, scattando a destra e a manca. Un bellboy minorenne col sorriso amaro, ragazzini allegri a Piazza Navona, scolaretti a Trastevere, un bimbo a Noto in posa, scugnizzi. Scene di quando anche noi eravamo la ragazza afgana di Steve McCurry.

Così possono rivivere gli italiani una situazione da Where do you go to my lovely – “you remember the backstreets of Naples, two children begging in rags” – in cui eravamo dei poveracci, prima del piano Marshall e del boom e della riviera e della rapallizzazione e di quella crescita economica che giusto in Italia si può chiamare miracolo, come se fosse qualcosa che arriva dal cielo. Soprattutto al giovane Avedon – che resterà per sempre legato emotivamente a questi primi tentativi di rappresentazione delle emozioni umane – interessa la vita pubblica della piazza, i disperati che si godono la vita, la sceneggiata e la burla, anche con i detriti fumanti dietro. I clown, insomma, che ridono anche nello scenario post-apocalittico, quello che poi è diventato il simbolo dell’Italia nel mondo, “l’arte di arrangiarsi”, mista con quella che Massimo D’Alema chiama “etica borbonica”. Un trampoliere a Palermo, gente che si lancia dalle navi a Venezia per fare il bagno in laguna, e poi Zazi, subito felliniana performer di strada, che per sfamare i figli si conciava da pagliaccio e faceva la mattacchiona nei baretti del centro di Roma. Un mondo di desolati “furbetti e scansafatiche, pancia al sole e mani sulla pancia”; come diceva qualcuno in un film dei Taviani.

Queste foto, fino ad ora inedite, si possono vedere da Gagosian a Roma in “Italian days”, vicino agli scatti che poi hanno santificato Avedon come obiettivo del glam, con quel suo look via di mezzo tra Marlboro Man e modello di Ralph Lauren, con quel suo immaginario di modelle coi cappelli Schiaparelli, che sembrano sempre colte alla sprovvista, e poi Nastassja Kinski nuda avvolta da un pitone, Malcolm X sfuocato e Truman Capote senza canottiera, Marilyn Monroe e Wallis Simpson. Alla fine, l’identità italiana passa anche da questi anni 40 di pianto e ricostruzione, quasi come passa dal jet set di Agnelli e dal Rinascimento. Periodi che ancora oggi finiscono nelle parodie e nelle campagne pubblicitarie del ministero del turismo, o buffoni o Cappella Sistina, o pizzaioli o Leonardo, o via Veneto o le baracche di Miracolo a Milano, da Franco Interlenghi a Open to Meraviglia.

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