
Ansa
Terrazzo
Viva gli architetti e abbasso i turisti
La diciannovesima Biennale della Mostra di architettura di Venezia tra spiritualità e fashion system, tra diagrammi, conclavi e party firmati. Un mix piranesiano di cultura alta e carnevale creativo, in una città che ormai sembra l’outlet mondiale dell’architettura
"Fumata bianca!” urlano gli studenti dell’Alberghiero che hanno preparato il buffet nell’orto dell’isola di San Giorgio per Luc Tuymans. E così campane a festa nel bacino di San Marco e sembra la fine di un cartone Disney, e ancora non si sa che il nuovo Papa è di Chicago, la capitale americana dell’architettura. Un segno forse, l’ego di un architetto potrebbe far pensare a un augurio per la Biennale. Venezia come una Lucca Comics delle archistar. Cosplay di Rem Koolhaas, firmacopie da Jean Nouvel, in città per presentare la nuova fondazione Cartier parigina. “Piranesiana!”, dice il filosofo Emanuele Coccia, in giro per padiglioni con maglione multicolor. La laguna ormai come un outlet degli eventi collaterali. Ogni porta nelle calli buie potrebbe nascondere la performance di un artista nigeriano, o il display fatto da un AI senziente che forse è solo il solito trucco del turco meccanico. La Serenissima come una Serravalle Scrivia delle fondazioni, che nascono come funghetti allucinogeni. Case di moda come l’alieno Looney Tunes che pianta la bandierina su qualche Ca’ del Canal Grande.
A Milano si è mangiato con la moda, poi la moda si è mangiata Milano. La moda fagocita l’arte anche fuori dalla circonvallazione. In giro melting pot, registe giapponesi (“Ti presento la Sophia Coppola di Tokyo”), Miuccia che parla inglese presentando diagrammi, cileni che insegnano ad Harvard, principesse del Qatar, Lucio Caracciolo, allievi di Tadao Ando, Boeri in bici-pedalò, e poi i Fosbury nel nuovo ristorantino della Scuola Piccola Zattere. Bellissimo poi il nuovo spazio Fiorucci (curato da Obrist), sogno per le vittime dell’immobiliare-core, una casa “nuda” a Dorsoduro – “ho sempre amato le cose non convenzionali”, dice al Foglio Nicoletta Fiorucci. Corsa al buffet dei prosecchi al padiglione Italia, Terrae Acquae che il ministro Giuli pronuncia giustamente “alla maniera degli antichi latini”. Effetto conclave anche in laguna, con coda da piazza San Pietro al padiglione Vaticano, impalcature concettuali e succo di mirtillo. (Ma è mai possibile che i più cool ormai, alle Biennali, siano i preti?). Il presidente Buttafuoco riesce a trasformare in poetico il saluto istituzionale. E mentre le sciure assaltano cicchetti e mozzarelle in carrozza, i giovani sottopagati preferiscono le tote bag da aggiungere alla collezione infinita, vera eredità per i figli dei millennials. Occhiali da De Lucchi e camicioni da operaio, tutti come dei Cipputi con l’Ozempic.
Al massimo un po’ di Camper e pantaloni Issey Myake, qualche trench da Muji ad Aspesi in base al venticello. Alle feste italiane si vede la differenza Roma/Milano. I milanesi parlano di quanto gli piace Venezia – “E’ una città che ti attira se sei un architetto”, “e comunque esci di casa e hai il mondo” – mentre i romani tra loro parlano come se il Veneto fosse solo una fermata della metro B, un po’ più in su di Monte Mammolo. La testa è sempre sul Tevere, anche mentre si fanno i video in verticale nei padiglioni di Macao o di Hong Kong. Rolex, pregiato sponsor, da lounge si è fatto padiglione. E c’è chi non sembra accorgersi degli archilovers, che diventano piacevoli di fronte ai soliti turisti coi trolley e le bandierine, e in particolare davanti ai plotoni degli addii al nubilato e celibato – in particolare se con magliette con scritto “amica della sposa”, magari in inglese – per cui servirebbe un nuovo Mose, altro che contributo d’accesso.

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