
(foto Ansa)
terrazzo
I benedetti architetti di Manuel Orazi
Gae Aulenti come protagonista silenziosa ma radicale, di rottura di tutti gli schemi. Ma non solo. Il nuovo libro del giornalista e scrittore
Pubblichiamo un estratto dal nuovo libro di Manuel Orazi, “Vite stravaganti di architetti” (Giometti & Antonello editori, 224 pp., 18 euro).
Gae Aulenti. Atacchica. Di famiglia pugliese e napoletana, con una vecchia dimora in Calabria, ma nata in Friuli, a Palazzolo dello Stella, Gaetana Emilia Aulenti detta Gae è cresciuta in una casa con pochi libri alle pareti, come quasi tutti gli italiani novecenteschi. La modesta estrazione culturale l’ha però motivata – come diceva Jacques Lacan, “noi siamo ciò che ci manca” – a ben vedere il leitmotiv della sua esistenza. Dopo il liceo artistico nella città più vocata al tema, Firenze, la famiglia si sposta a Biella dove la sorprende la seconda guerra mondiale, la Resistenza e il primo amore con un partigiano. Seguono Milano, il Politecnico, la laurea in architettura fra le pochissime donne iscritte, il matrimonio con il veneto Franco Buzzi, la nascita dell’unica figlia Giovanna, che le somiglia come una goccia d’acqua. Due i maestri: l’ebreo triestino Ernesto Nathan Rogers, che la coinvolge nella redazione di “Casabella-Continuità”, e il nobile palermitano Giuseppe Samonà, rettore dell’IUAV, cui fa da assistente per un paio d’anni. Il debutto come progettista è per una villa con scuderia dalle parti di San Siro (1958) ascrivibile al Neoliberty, corrente borghese sviluppatasi fra la Torino di Gabetti e Isola e la Milano della Torre Velasca, passando per l’intermedia Novara dello studio Gregotti, Meneghetti e Stoppino – Vittorio, altro rogersiano (sarà uno degli amici della vita), la invita alla sua Triennale del 1964, per allestire la sala d’ingresso con l’installazione “La corsa al mare”, con le celebri silhouette femminili di Picasso. Il divorzio e la morte del padre rendono urgente un lavoro più solido, e l’amica psicanalista Luciana Nissim la presenta ad Adriano Olivetti. Comincia impaginando la rivista “Tecnica e organizzazione” e conosce così Giorgio Soavi e Renzo Zorzi; il suo primo lavoro fu uno showroom Olivetti a Parigi, e subito dopo un altro a Buenos Aires. Nonostante fosse una donna sola con figlia, viaggiò in mezzo mondo, fedele all’internazionalismo instillatole da Rogers. Una mostra itinerante per l’azienda di Ivrea l’avvicina alla Swinging London e alla cultura pop, dandole occasione di familiarizzare con i nuovi materiali plastici coloratissimi che tornano utili per il lavoro successivo con la Fiat, per la quale tenta di costruire un’immagine coordinata sul modello olivettiano, senza riuscirci. Memorabili restano i progetti per il concessionario Fiat di Zurigo e per l’appartamento milanese dell’Avvocato, con gli ironici agnelli pelosi in corridoio. In modo più discreto si dedica alla grafica editoriale, producendo raffinate quanto rare edizioni di Raymond Roussel; altre pubblicazioni sulla grafica urbana incuriosirono persino Pasolini. Gli anni ‘70 la portano verso un nuovo territorio progettuale, il teatro; lavora con i più grandi, fra cui Luca Ronconi, con cui cerca un impossibile rapporto amoroso parallelo a quello fra Maria Callas e Pasolini. Le scenografie della Scala, di Napoli, Prato e Pesaro si moltiplicano, l’evoluzione progettuale aulentiana è logica: dall’architettura degli inizi passa agli interni, cioè al design, quindi alla scenografia teatrale e di lì a quella museale. In un’intervista con Paolo Di Stefano racconta di Paolo Grassi al Piccolo: “Stava zitto o parlava moltissimo, senza via di mezzo. Riusciva a essere molto gentile oppure molto villano, con scatti imprevedibili. Mi chiamava l’Atacchica, perché non ho mai portato i tacchi”. Il Museo d’Orsay di Parigi è il primo grande concorso internazionale vinto e realizzato, nonostante le intromissioni di Mitterand; per l’occasione ruba Italo Rota alla Gregotti Associati (...). Spesso bistrattata dalla critica, ha sempre vissuto in via dei Fiori Oscuri, lavorando al suo tavolo – quadrato come lei – con l’immancabile sigaretta in mano, i capelli corti e il basco, in una città che amava molto, ricambiata dall’intelligencija meneghina (il salottone supremo Eco-Gregotti-Calasso-Pericoli-Tadini, dov’era l’unica ammessa senza essere moglie di qualcuno): “Milano è fatta dagli immigrati, c’è uno scambio diretto e indiretto, è come stare qui e altrove nello stesso tempo”.