Anthony Andrews, Diana Quick e Jeremy Irons nella serie “Brideshead Revisited” andata in onda nel 1981 su Itv (GettyImages) 

Terrazzo

Saltburn, Brideshead e The Gentlemen: la mania per le grandi case inglesi non passa mai di moda

Michele Masneri

Un maniero tutto per sé. Gli ultimi sviluppi di una tradizione letteraria-immobiliare inglese che non conosce crisi

Che invidia per i giovani millennial o sottomillennial che hanno scoperto con “Saltburn” il brivido di quel genere particolarissimo, gli amori fluidi nei vecchi manieri inglesi: e chissà se si appassioneranno, per scoprire  tutta la vastissima nicchia letteraria-estetica di cui la pellicola è solo l’ultimo tassello.  Protagoniste sono sempre le grandi magioni inglesi, le  vecchie “stately home” cascanti in cui ultimi eredi tossichelli si aggirano, tra parenti svalvolati e  tasse di successione e impulsi erotici e molto alcol, il tutto visto sempre  dal punto di vista di outsider borghesi che rimarranno avviluppati e segnati per sempre da queste esperienze. Oggi, è tutto un  revival. Per Feltrinelli è appena uscito per esempio  “Ritorno a Brideshead”, nella nuova traduzione di Ottavio Fatica, con prefazione di Alessandro Piperno. Il romanzo di Evelyn Waugh è un grande classico del genere stately-queer che ha accompagnato le nostre infanzie grazie anche alla trasposizione nella miniserie inglese Itv del 1981 (poi su Rai 2) con Jeremy Irons (molto meglio di Barry Keoghan, diciamolo) che fa Charles Ryder,   giovane studente middle class che si ritrova in una Arcadia signorilissima.  Il giovane  Ryder  intesse un torbido triangolo con i giovani castellani Flyte, fratello e sorella, figli di lady Marchmain (nella serie, interpretata da Claire Bloom, poi signora Philip Roth) ma soprattutto col loro Brideshead Castle. 


La serie è girata a Castle Howard, nello Yorskshire, aperto al pubblico con la solita filiera di marmellate, biscotti e visite guidate con “the real lord having breakfast” come già in “Fumo di Londra” di Alberto Sordi. Sì, perché questo genere poi produce una solida economia circolare: romanzi che diventano film che poi fanno riscoprire manieri che vengono resi visitabili, e finalmente gli impianti elettrici atavici possono essere  ripristinati. 


Come in un altro feuilleton che appassiona, però vero, verissimo, pura non fiction, quello di Houghton Hall, il maniero costruito nel Settecento per il primo primo ministro Robert Walpole e oggi casa della fatale coppia Rose Hanbury e David Cholmondeley, settimo marchese Cholmondeley, i vicini di casa di William e Kate quando stanno a Sandringham.  Nel castello abitano la smilza ex modella, secondo taluni amante di William, e il sornione marchese, gran ciambellano di corte (non è un modo di dire, è il suo ruolo ufficiale, è colui che riceve i capi di stato in visita).  La casa è fascinosamente vuota, i Cholmondeley hanno venduto infatti tutto il vecchio mobilio per pagare le micidiali tasse di successione e rifare l’impianto idraulico (provvidenziale la scoperta di un Holbein, alienato alla National Gallery). I figli girano in skateboard, tra le opere site specific di James Turrell – ora c’è molta arte contemporanea ovviamente – e ospiti fisse come Kate Moss.    

 

Le “stately home” sono esse stesse un genere letterario  (la definizione è vaga, ma quella accettata  intende un casone abitato per un certo numero di secoli dalla stessa famiglia aristocratica con funzioni di rappresentanza);  le saghe sono infinite, dalle sorelle Mitford alle varie invenzioni di Julian Fellowes. 
Se già un tempo si diceva che il benessere delle vecchie famiglie inglesi si poteva facilmente dedurre dal numero  di squilli al telefono fisso prima che qualche servitore residuo rispondesse (soldi inversamente proporzionali agli squilli), basta guardare i giornali inglesi pieni ancor oggi di offerte di magioni  “Listed I” e “Listed II”, nelle campagne, il cui valore  però lievita – novità – con la presenza di ottime scuole esclusive ma includenti nelle vicinanze. 

 

Pare infatti finito per sempre invece un altro sottogenere immancabile dell’educazione britannica, quello della brutalizzazione dei piccini in collegi lontanissimi e sadici: così i piccoli George, Caroline e Louis vanno nella progressista Lambrook School vicino a Windsor dove risiedono. Ci si chiede invece quale apporto avrà su Althorp, il colossale maniero degli Spencer col mausoleo di Diana, il trionfo editoriale del libro di Charles, attuale conte e fratello, che ha dato alle stampe “A very private school”,  poderoso memoir sulle bullizzazioni ricevute in una scuola d’infanzia prestigiosa e crudele. Primo in classifica nella saggistica inglese, racconta di presidi sadici e professoresse sporcaccione (una  l’avrebbe violentato a lungo).  Appare ovunque per la promozione  una foto del piccolo  Spencer bambinone dall’aria afflitta, in procinto di partire per la boarding school, con baule col nome gentilizio inciso sopra, una vecchia Jaguar XJ e una nanny sullo sfondo. E indosso “la giacca di tweed più ruvida che si possa immaginare”, racconta lui oggi, ammettendo che quell’esperienza l’ha devastato per sempre, come forse buona parte delle classi alte inglesi. Ma il libro come si dice è divisivo,  già i sudditi-lettori più conservatori storcono il naso e Spencer da taluni viene considerato traditore della sua classe. In una infuocata lettera al Daily Telegraph il conte viene accusato d’essere inutilmente lamentoso, con l’aggravante d’essere “seriously landed”, cioè possessore di  molta terra, a differenza di tanti rimasti senza. Secondo il Guardian starebbe invece rilanciando la domanda di tweed e altri generi prettamente inglesi la nuova serie  “The Gentlemen” di Netflix, ennesima variazione sul tema:  Theo James, già reduce da “White Lotus” è un  belloccio erede a titolo e latifondo scricchiolante però  in versione gangsteristica.   


Girato anche qui in una sequela di grandi residenze di campagna,  insomma servono terra e castello sennò queste storie non stanno in piedi. I fatali  Cholmondeley, molto landed pure loro,  e dal cognome complicato da pronunciare,  producono pure piatti, bicchieri, tovaglie col “Cabana” di Martina Mondadori a Milano. Mentre Alberto Arbasino raccontava che  – altro cognome complicato – Evelyn Waugh, a una cena milanese   data in suo onore, la padrona di casa  Giuseppina Crespi, dei vecchi  editori del Corriere,  l’aveva trascurato  per tutta la sera ignara che fosse  proprio lui il suo amato  “Vaug”  di cui possedeva l’intera opera, quindi  rincorreva “Uòò” in mezzo alla strada per fargli autografare   i libri.  Anche i Crespi in quanto a land non erano poi messi male. Comunque la marchesa Cholmondeley  ha ammesso di aver ceduto al corteggiamento del marito ciambellano solo dopo il sopralluogo immobiliare.  “Sapevo che aveva una casa di campagna. Non immaginavo che avesse una stately house”, ha detto, e lì c’è tutta la differenza che conta.

 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).