Alberto Sanjuan e Aitor Arregi durante la presentazione della nuova serie di Disney+ Cristobal Balenciaga (Foto Ansa) 

Terrazzo

Vita da cani in Balenciaga

Michele Masneri

Su Disney+ arriva la serie sullo stilista spagnolo. Sullo sfondo i nazisti a Parigi, le ansie dell’alta moda e del giornalismo perduti

Ormai l’audiovisivo sugli stilisti è un genere a sé (son ricchi, hanno belle case, e un sacco di drammi, c’è molto “footage” cioè filmati). Il migliore rimane “The last emperor” diretto e voluto dall’ex giornalista di Vanity Fair Matt Tyrnauer poi convertito ai documentari; leggendari gli scazzi tra Valentino e Giammetti, i carlini in aereo privato, i climax (com’è andata? “troppa sabbia”, per una sfilata fondamentale a tema deserto; “o troppo abbronzato”). Poi Lagerfeld, e Saint Laurent, e poi tutta una deriva crime seriale con “The Assassination of Gianni Versace” e “House of Gucci”. Notevole l’Halston fatto da Ryan Murphy, il Piero Angela della gayness americana, di cui si attende spasmodicamente la serie sui cigni capotiani diretta da Gus Van Sant e da domani su FX, con Naomi Watts che fa Babe Paley e Chloë Sevigny CZ Guest e Calista Flockhart (già Ally Mc Beal) la sorella sfortunata e gelosissima di Jackie Kennedy, Lee Radziwill. Non si sa chi faccia Lady Ina Coolbirth, regina dell’alta società  che poi altri non era che Pamela Pamela Harriman,  nuora di Churchill e grande amore giovanile di Gianni Agnelli e infine ambasciatrice americana a Parigi. 

 

Ma per ora è arrivata su Disney Plus la serie spagnola “Cristóbal Balenciaga”, dedicata al creatore basco-francese, una storia poco conosciuta, raccontata tramite l’espediente classico dell’intervista, in questo caso reale, data alla giornalista di moda Prudence Glynn subito dopo il ritiro dello stilista, nel ‘71. Dalla serie vien fuori il solito modulo (creativo stizzoso affiancato da marito paziente e razionale, Valentino con Giammetti, Saint Laurent con Pierre Bergé ecc.) ma si imparano tante cose: che nell’occupazione tedesca di Parigi i nazisti vogliono portare la moda francese a Berlino, ma odiano i cappelli;  che la regina Fabiola del Belgio a cui farà l’abito da sposa era molto insicura del suo fisico (però nella realtà era una nobildonna spagnola molto cattolica, qui invece sembra un po’ una ragazza ye ye). Che lui è ossessionato dalla privacy, odia apparire, non esce mai a fine sfilata, è bizzarramente sconvolto che la gente voglia saperne di più,  al suo mostrarsi di meno, e scioccato quando Coco Chanel mette in giro la voce che forse lui non conosce molto bene il corpo femminile. Sembra un po’ Gadda, come faccia e come postura, nell’intrepretazione commendatoriale dell’attore Alberto San Juan, col fazzolettino bianco nel taschino, sempre mugugnante e malmostosamente impacciato. Ma cos’era, convinto che tutti lo ritenessero sciupafemmine? Ossessionato invece da cosa dirà la gente, e cosa diranno soprattutto i numerosi e famelici parenti e nipoti spagnoli  (ma quelli sembrano molto più interessati ai dividendi che all’orientamento dello zio “vieux garçon”). 

 

Lui poi non vuole per niente buttarsi nel prêt a porter, poi fa un salto nel paese reale quando gli chiedono di disegnare le divise delle hostess Air France, ma sbrocca quando capisce che non può fare su misura il fitting a tutte le migliaia di assistenti di volo. Le hostess poi protestano perché le uniformi tirano sulle maniche quando devono sistemare i bagagli nelle cappelliere. Ma lui, gli dice il suo compagno Wladzio che morirà di infarto (forse troppo stress stare accanto a Balenciaga) è abituato a fare vestiti per regine, non per donne che armeggiano con le mani. Lì lui ha un crollo, le maniche son sempre state la sua ossessione. Come al solito poi si scoprono tante storie laterali, Coco Chanel prima collaborativa e poi vendicativa, l’aiuto al giovane Hubert de Givenchy, anche rifilandogli Audrey Hepburn che cerca uno stilista per i costumi di “Sabrina” (ma tutti pensano che sia la più famosa Catherine e ci rimangono male), e poi la stessa giornalista che riesce a intervistare Balenciaga tre anni dopo la sdegnosa chiusura della maison (è il 68 fatale e le donne cominciano ad agitare molto le mani).  

 

Lei era prudence Glynn, prima fashion editor del Times di Londra, una specie di Camilla Cederna inglese (anche somigliante), qui impersonata da Gemma Elizabeth Whelan,  nota principalmente per il suo ruolo di Yara Greyjoy nel “Trono di Spade”.  La giornalista era un personaggione, variante nobiliare delle varie Sozzani-Vreeland-Wintour,  sposata a un Hennessy lord e politico.  Nel ‘71 esce la sua intervista intitolata “Balenciaga e la vita da cani” in cui il sarto si confessa mugugnando (per conquistarsi la sua fiducia lei si era presentata al funerale di Coco chanel in un abito Balenciaga rosso). Colpisce la rilevanza che aveva la stampa al tempo. E’ tutto un “cosa diranno i giornalisti! Hanno troppo potere i giornalisti!", oggi farebbe sorridere, con i cronisti intruppati in sale stampa con la bottiglietta d’acqua, e meno considerati dell’ultimo influencer cinese. E poi: che direbbe oggi señor Balenciaga davanti a quello che è diventato il suo marchio, epitome pur prestigiosissima di zatteroni e ciabattoni  distopici per Casamonica globali (e la gonna-asciugamano dell’anno scorso, e Kim Kardashian avvolta nello scotch col suo nome sopra! Altro che le hostess).

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).