Truman Capote con Lee Radziwill nella Grand Ballroom del Plaza per il “Ballo in bianco e nero”, 28 novembre 1966 (Getty) 

Terrazzo

Truman Capote, i suoi cigni e il suo ballo: tutti i dettagli in un libro

Michele Masneri

Case, hotel, ristoranti e ginnastica. Non solo il “Ballo in bianco e nero” di Truman Capote, anche un’istantanea della New York ’66. Un libro

Del “Ballo in bianco e nero” organizzato da Truman Capote il 28 novembre 1966 ormai si sa tutto, chi c’era e chi non c’era, chi avrebbe voluto esserci e chi si tumulò in casa con le luci spente dicendo d’essere all’estero perché non aveva ricevuto il pregiato invito. Adesso però, su quello che chiuse per sempre l’epoca dei balli, mentre già scoppiavano i tumulti (a Berkeley nel ‘65) e come ricordava la compianta Marina Cicogna (non invitata) poi venne il ‘68 e si portò via tutto, arriva un nuovo (per l’Italia) volume che illustra proprio i dettagli più minuziosi per gli appassionati più maniaci. “Truman Capote e il party del secolo”, di Deborah Davis, esce per Accento, la nuova casa editrice milanese fondata dal televisivo Alessandro Cattelan, con direttore editoriale Matteo B. Bianchi.

Una miniera di dettagli, a partire dal biglietto di invito con i drammi su carta e caratteri e inserire o no il numero di telefono per il RSVP, fino al “dress code” severissimo (smoking per i signori, abito bianco o nero per le signore, ventaglio, maschera, e, qui veniva la parte difficile, come gioielli solo perle e diamanti, era l’idea iniziale ma poi fu accantonata, anche perché  qualcuna i diamanti se li era venduti, non era il caso di esser troppo severi, del resto altrove già allignavano le Pantere nere e tutto sarebbe velocemente crollato). La parte più interessante del libro è nel clima che si respira in quegli anni lì a New York, i patrimoni, i consumi, chi sale e chi scende, cosa e dove  si mangia. A partire dai ristoranti. Come sanno gli appassionati di “Preghiere esaudite”, con lady Ina Coolbirth che per raccontare la storia di Ann Hopkins ci mette trenta pagine  mentre  attende il soufflé Fürstenberg, scelto perché appunto necessita di lunghissima preparazione, e consente i gossip e i molti drink e il racconto che più lutti porterà poi a Capote, col suicidio dell’interessata e la di lui disfatta sociale. Ma non c’era solo La Côte basque, in quel fatale autunno ‘66 andavano per la maggiore il Lafayette, e La Grenouille, dove nuovi e vecchi ricchi, mondani e aspiranti a tutto questo si precipitano soprattutto a colazione per essere visti.

Non è però necessario mangiare. Anzi, in quel periodo vanno di moda  “la dieta del formaggio svizzero” e un beverone chiamato “Metrecal”, che permette di sostituire i pasti. Chi può, come Babe Paley, uno dei “cigni”  di prima fascia di Capote, va direttamente da Joseph Pilates, inventore dell’omonima disciplina che ha aperto un suo studio in città. Merle Oberon e Luciana Pignatelli (sfortunata figlia di un direttore del Messaggero, proprietaria della villa Saracena di Santa Marinella) vanno da un certo Sbarra che applica loro dei pesi alle estremità. Chi non ha un personal trainer si affida a macchinari snellenti come il Relax-a-Cizor, che permette una volta applicato di “leggere, riposare o guardare la tv”, e sembra quello della prima stagione di “Mad Men”.

E come nella serie sui pubblicitari c’è anche qui un po’ di storia dell’architettura di New York: la sala prescelta da Capote è la “Grand Ballroom” del Plaza; lunga venticinque metri e larga tredici con soffitti alti sette, era enorme quando il Plaza nacque, a fine Ottocento, in piena “Gilded age”, ma poi negli anni venne superata da altri alberghi, anzi secondo Women's Wear Daily  nel 1963 scoppia una vera “guerra delle sale da ballo”, sempre al rialzo, per colossali feste di beneficienza o societarie, e alla fine quella del Plaza diverrà da enorme a “intima”, e somigliante – di nuovo, Gilded age –  ai vecchi saloni di casa dove si invitava a inizio secolo senza spillare soldi agli invitati e senza “cause” da foraggiare. Inoltre  questa ha un vantaggio, è stata disegnata apposta per mettere in risalto gli ospiti. Dall’ingresso dell’hotel alla sala vera e propria infatti gli invitati devono entrare nella Palm Court, poi salire una scalinata, poi passare da un mezzanino, poi ridiscendere un’altra scalinata,  e “quel percorso garantiva ai partecipanti molto tempo per vedere ed essere visti”.

Il glorioso Plaza, oggi residence, era stato inaugurato nel 1890  e poi demolito nel 1902 e ricostruito nel 1907 per essere sempre più grandioso, in versione finale su disegno di Henry Hardenbergh, già autore del Waldorf Astoria e del Dakota Building. Considerato l’hotel più lussuoso del mondo, contava 1650 lampadari di cristallo, ottocento camere da letto e cinquecento bagni. La prima sala da ballo aveva un palco che saliva e scendeva con un meccanismo elettrico. Ma anche questa, nell’isteria demolitoria newyorchese, viene rasa al suolo e ricostruita nel ‘21, e qui arriviamo alla nostra “Grand Ballroom”.

Capote tra i dettagli ossessivi del ballo che sottopone ai suoi  “cigni”, le sue ancelle miliardarie o potenti o aristocratiche (a proposito, ma quando arriva la tanto annunciata serie sui cigni di Ryan Murphy?) sembra l’elegantone Ward McAllister della serie “The Gilded Age”, in onda su Sky, ideata da Julian Fellowes sui nuovi e vecchi ricchi che si mescolano nella New York però di fine Ottocento, consunti blasoni europei e capitali nuovi affluenti, insomma solita storia. Però Jas Gawronski mi ha raccontato che il vecchio principe polacco Radziwill non fu per niente contento del matrimonio di suo figlio col cigno Lee,  sorella di Jackie Kennedy, e non andò al matrimonio considerato una cafonata.

Qui invece l’autrice definisce i Caracciolo poco carinamente “in disgrazia”, ma c’è il solito problema degli autori americani anche attentissimi appunto a nomi di ristoranti e couturier e parrucchieri che però sugli italiani vanno un po’ in confusione. Ecco allora che il cigno Marella con Gianni ricevono l'invito nella loro bella "Villa Perosa" a Torino (vabbè). Ma nella preziosa appendice al libro, con la lista dei 540 invitati, altre curiosità:  Umberto Agnelli  inopinatamente compare col titolo di “conte”, mah; poi Carlo e Nicola Caracciollo, con due elle, Domietta Hercolani è addirittura Domiella Herculani (!), Rodolfo Crespi è Rudolfo. Tra gli italiani ammessi c’è anche lo scrittore e giornalista Alfredo Todisco, uno dei pochissimi scritti giusti.  Ma gli errori furono dovuti alla celebre scrittura incomprensibile di Capote, spiega l'autrice, con la sua lista poi passata di mano a varie segretarie, e pure l’indirizzo della festa era 485 e non 465 Park Avenue. Anche se tutti sapevano dov'era il party, Capote li corresse di suo pugno uno per uno (e chissà oggi il valore collezionistico).

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).