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Made in Italy, chi era costui

Giulio Silvano

Mentre il Mise diventa il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, Einaudi pubblica "Il design e l’invenzione del Made in Italy" di Elena Dellapiana, un testo intelligentissimo che fa il punto su come si è arrivati ad avere un certo immaginario del bel paese all’estero

Proprio nei giorni in cui il Mise diventava il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, usciva per Einaudi Il design e l’invenzione del Made in Italy di Elena Dellapiana, un testo intelligentissimo che fa il punto su come si è arrivati ad avere un certo immaginario del bel paese all’estero, attraversando le prime esposizioni universali, passando per gli Olivetti, per Capri e per l’Italia in mostra, che fosse al Moma o da Macy’s. “E’ un po’ inquietante e un po’ divertente”, dice al Foglio la professoressa Dellapiana, del Politecnico di Torino, sul cambio di nome del ministero. “Mi sembra che questa partita qui sia di tipo esclusivamente economico, nel senso più stretto e più deteriore del termine, cioè di protezionismo. Mentre nel processo di cui ho scritto, imprese e progettisti sono stati in grado di piegare tutto a una forte componente di ricerca. Il made in Italy muove ancora una parte consistente del pil, e vive di rendita di questa fase un po’ eroica, pre-anni 80, dove chi finanziava lasciava abbastanza libera la parte curatoriale e interpretativa, ci si fidava della cultura”. Ma un nome in inglese per un ministero sovranista? “Sono paradossi e cortocircuiti”. Un po’ come il fatto che l’etichetta Made in Italy, nata per l’estero, sia apprezzata altrettanto dagli italiani, a casa loro. “E’ un po’ il trucco che hanno usato i progettisti e le aziende italiane recependo il tipo di successo avuto fuori e riportandolo in Italia”. Due parole chiave vengono fuori in questo processo: Rinascimento e artigianalità, cioè passato e manualità. “Ricostruendo le sequenze cronologiche si vede un ritorno carsico ma continuo di queste due categorie. Il Rinascimento, ricostruito in maniera alta da storici stranieri facendone una categoria culturale, si porta dietro l’idea di artigianalità nel senso di bottega alta à la Benvenuto Cellini, di produttori di arte applicata di altissimo livello. Queste due categorie non si sono più sganciate, nemmeno nella comunicazione, anche oggi. Per gli Stati Uniti poi dopo la guerra c’era l’interesse a chiudere nell’enclave artigianale la produzione italiana perché non doveva fare concorrenza a quella meccanizzata”. Quindi da spaghetti, pizza e mandolino a Prada, Vespa e Sottsass? “Come nella mitizzazione del Mediterraneo – a cui il libro dedica un capitolo – c’è una cooperazione raffinata tra lo spontaneo, il carnale, un certo stile di vita libero, e approcci più creativi e concettuali. La fortuna di Capri, Ischia e Procida l’hanno fatta gli stranieri”. Sulla copertina del libro c’è una Vespa. Ma è ancora il simbolo del made in Italy? “Sì. Poi è identificativa di questa capacità di modulare. Viene lanciata sul mercato americano per il trasporto familiare nelle aree rurali. Poi ci si accorge che è anche un rimedio all’affollamento delle aree metropolitane ad alta densità e diventa una soluzione al parcheggio e allo stesso tempo un’icona di stile, contro ogni evidenza funzionale. E lo dico da vespista. Poi agli americani piace perché è vicino alla loro sensibilità estetica – quelle forme lì, bombate, nei treni e nelle macchinette della Coca-Cola, ce le avevano già. E poi, anche grazie alla pubblicità, si sovrappone all’idea di eleganza tipicamente italiana”. 
 

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