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Terrazzo

Riccardo Dalisi, il radicale mediterraneo che parlava ai ghetti

Manuel Orazi

"Ho preso un povero e l’ho fatto diventare un artigiano”, amava ripetere, facendo dell'integrazione sociale la cifra del suo lavoro. Fra i non molti esponenti solitari dell’architettura e del design radicale è stato l’unico meridionale

Fra i non molti esponenti solitari dell’architettura e design radicale, Riccardo Dalisi, mancato il 9 aprile, è stato l’unico meridionale. Coetaneo di Aldo Rossi e Paolo Portoghesi, era nato a Potenza nel 1931. Studia a Napoli con Giulio De Luca, già pupillo di Marcello Canino durante il ventennio, poi affiliato all’Apao di Bruno Zevi nel Dopogerra. Durante gli studi Dalisi si lega in particolare a Filippo Alison e Mario Marenco, in seguito tutti e tre pur prendendo strade diverse si dedicheranno al design – Dalisi è stato anche direttore Scuola di specializzazione in Disegno industriale oltre che professore di Progettazione. Partecipa a concorsi e con Massimo Pica Ciamarra e Michele Capobianco vince quello per la nuova Borsa Merci (1964-71) con una grande scala che era al contempo una strada interna, idea ripresa poi nella Torre a Ponticelli (1984-88).

 

Dagli anni 70 Dalisi ha agito sempre in totale autonomia rivolgendosi ai ghetti nelle periferie o nelle borgate centrali più disagiate, portando i suoi studenti al Rione Traiano (24.000 abitanti senza servizi), costruendo strutture con i bambini di strada e anticipando tutti in termini di progettazione partecipata, anche Giancarlo De Carlo che fu suo estimatore pubblicandolo spesso su “Spazio e società”. L’uso di tecniche povere e poverissime di Dalisi, in linea con il lavoro coevo di Yona Friedman o Victor Papanek, come ha notato Cristiano Toraldo di Francia concorreva “di fatto alla liberazione della creatività collettiva, Dalisi mostrava il valore scientifico di un’operazione volta a sondare l’interno di uno spessore inesplorato di energia”. Il progressivo interesse verso il design lo ha avvicinato ai radicali fiorentini e milanesi, prendendo parte ai seminari di Global Tools e poi in particolare alle iniziative di Ugo La Pietra che lo ha sempre coinvolto nelle sue mostre, da “Spazio reale, spazio virtuale” alla Triennale del 1979 a quelle sull’artigianato dei decenni successivi.

 

La decisione di rianimare Rua Catalana era in linea con la sua idea di design come strumento di integrazione sociale, “ho preso un povero e l’ho fatto diventare un artigiano” amava ripetere. Le sue ironiche caffettiere, i suoi giocattoli spiritosi come Totocchio (ibrido tra Totò e Pinocchio) gli sono valsi due Compassi d’oro (1981, 2014) – anche se lui autoironicamente istituì il Compasso di latta. Dopo il 2000 si era dato da fare al Rione Sanità con padre Loffredo, allora il punto peggiore del centro storico napoletano e oggi invece simbolo di rigenerazione urbana. La sua “architettura d’animazione” è insomma stata estremamente coerente e secondo La Pietra anche l’unica in grado di creare modello, degli allievi, insomma una scuola ancora viva pari forse solo a quella di Bruno Munari.
 

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