Il ricordo

In barba al passatismo: il genio di Reyner Banham

Manuel Orazi

Omaggio ai 100 anni dello storico britannico che criticava il revival architettonico divertendosi

Fra i tanti centenari che si festeggiano quest’anno, rischia di passare inosservato quello di Reyner Banham (1922-1988) e sarebbe un peccato, perché si tratta di uno dei più divertenti oltre che stimolanti storici dell’architettura di sempre.

Nato di marzo a Norwich da un padre ingegnere e da una mamma che di cognome faceva Reyner, Banham è stato un modernista sfegatato. Frequentatore del teatro Maddermarket, aperto appena un anno prima che nascesse, manterrà per sempre una cifra teatrale da mattatore ovviamente ricco di british humour. Partecipa alla coda della Seconda guerra mondiale lavorando per la Bristol Aeroplane Company e gli aerei, è noto, furono l’icona guida per la prima avanguardia dei futuristi e per Le Corbusier, entrambi amatissimi dal giovane storico. Nel 1949 entra nel Courtauld Institute of Art studiando con maestri del calibro di Anthony Blunt, Siegfried Giedion e Nikolaus Pevsner. Alterna le giornate nella neoclassica Somerset House a scapestrate serate insieme ai “giovani arrabbiati” artisti e architetti dell’Independent Group e del Team Ten (Eduardo Paolozzi, Richard Hamilton, Toni del Renzio, Nigel Henderson, Alison e Peter Smithson) dove si confrontano sulla cultura popolare dei rotocalchi, del cinema, dei fumetti, dei prodotti commerciali ben prima di Warhol e soci americani.

Nel 1960 pubblica la sua tesi: “Architettura della prima età della macchina” che è un atto d’amore per le avanguardie e le loro contraddizioni. Per l’architettura del suo tempo, quella dominata dal Le Corbusier più maturo di Chandigarh e Ronchamp, conia il termine di New Brutalism e s’impegna in un’intensissima attività critica per una miriade di riviste, attaccando fra l’altro i giovani italiani del Neo-liberty (Gregotti, Aulenti, Portoghesi) accusandoli di essere una retroguardia decadente e infantile. Banham, girando per Londra sulla sua Brompton con la sua coppola inglese e l’immancabile pipa, è attratto piuttosto da tutto ciò che è radicalmente moderno, nella tecnologia (“Ambiente e tecnica dell’architettura moderna”, 1969), nella città (“Los Angeles”, 1971), nel paesaggio (“Deserti americani”, 1982) e dunque dalla California dove si trasferisce verso gli anni 80, ultimo della British invasion degli storici – gli altri però rimasero tutti sull’East Coast, Colin Rowe, Alan Colquhon, Anthony Vidler e Kenneth Frampton.

Considerava ad esempio le tecnologie abitative (impianti, tubature, aria condizionata) più importanti delle strutture formali degli edifici, influenzando così molti architetti inglesi come Cedric Price, Archigram e Richard Rogers. Detestava invece il passatismo, la nostalgia, il revival dunque Rowe e il Post-Modern, simpatizzando al contrario per Bruno Zevi con cui aveva in comune anche un’ottima predisposizione verso la divulgazione colta come si evince dagli spassosi documentari per la Bbc dedicati al verde pubblico.
 

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