La mostra di Lina Bo Bardi al Maxxi (Foto Ansa) 

Terrazzo

Piacentini innamorato

Michele Masneri

Tutto quello che avreste sempre voluto sapere su Lina Bo Bardi ma lei non vi ha detto (compresa la relazione col massimo architetto del fascismo)

Ci si è sempre chiesti come fosse possibile che nessuno sceneggiatore, nazionale o estero, nella carenza di storie femminili prestigiose, tra magistrate, scienziate, inventrici, ispettrici, non si fosse buttato sulla storia di Lina Bo Bardi, unica architettrice italiana di fama mondiale, una storia perfetta: infanzia a Roma col fascismo, poi sbarco a Milano, Gio Ponti, e poi il Brasile e la fama sempiterna con costruzioni memorabili (a San Paolo il museo Masp, il centro Sesc-Pompeia, la sua Casa de Vidro…).

 

In mezzo carisma, sigarette, drinks, piroscafi, palme, ribellioni, e femminismo. Che vogliamo di più dalla vita? Adesso per gli appassionati è arrivata finalmente la biografia definitiva, scritta dal massimo linabobardista vivente, Zeuler R. Lima (La dea stanca. Vita di Lina Bo Bardi, Johan & Levi editore), appena tradotta (bene, da Nicoletta Poo e Teresa Albanese) in italiano, e racconta proprio tutto quello che avreste voluto sapere su Lina Bo Bardi e nessuno vi ha mai raccontato (soprattutto non lei). Con qualche sorpresa. Certo, lei nata Achillina, famiglia di massimo e terribile patriarcato, anche delitti (la nonna incarcerata perché aveva tentato di uccidere, insieme all’amante, il marito, dunque la mamma crescerà in carcere); il famoso terremoto di Avezzano che coglie la piccola Achillina ancora nella pancia di questa mamma e che, secondo lei, le darà quel carattere sismicamente insofferente per l’avvenire.

 

E il papà ingegnere, che prende parte alla costruzione di Roma capitale: dunque i nuovi quartieri, Prati, Testaccio, Garbatella, e la sera però le insegna l’acquerello e la prospettiva e la porta dagli artisti. La biografia ricostruisce tutti gli spostamenti sulla cartina romana della famiglia Bo, che corrispondono all’ascesa sociale, fino al culmine di villa Massimo, nella erigenda Nomentana, da dove la piccola vede giorno sì e giorno no il Duce lì a villa Torlonia. Col fascismo, rapporto complicato: certo, le uniformi dementi e i sabati fascisti intollerabili, e però, gran costruzioni, e come diceva Le Corbusier, lo stivalato è il committente da sogno col suo pallino della Terza Roma.

 

E si sapeva della tesi, fatta col più grande architetto fascio dell’epoca, Marcello Piacentini, tesi provocatoria, discussa in uniforme da piccola fascista, indossata controvoglia, nella nuova facoltà di Valle Giulia: tema, un ospedale per ragazze madri. Gran provocazione. Ma viene fuori che non è proprio così, scrive il biografo: più che provocazione è un classico reparto maternità “di Stato”, in linea con la politica del Duce della figliolanza a tutta callara. Ma il gran colpo di scena è quello che vien fuori dopo, molto dopo: addirittura una torrida liaison col grande archistar del Ventennio. Lei trent’anni, lui, Piacentini, sessanta, e qui plot twist che forse non funzionerebbe in un biopic con audience globale mettiamo Netflix, perché ecco un classico ménage di stanze d’albergo tra lo sposatissimo architetto di regime e la giovane collega di massimo antifascismo.

 

Infatti, poi, lei, memorie addirittura di partigianerie. “Sono entrata nella resistenza, con il partito comunista clandestino”, racconterà, ma secondo il biografo queste affermazioni riguardano “ciò che avrebbe voluto fare a posteriori, più che l’ambigua esperienza vissuta in realtà”. Ciò che è sicuro è che colui che ha messo le piazze italiane in marmi bianchi le scrive lettere d’amore di otto pagine, “un portento di sincerità e di abbandono”; per Piacentini lei è “donna nello spirito e nel cuore”; “tutta la mia vita ne è trasformata come in sogno”.

 

Il resto è noto: la partenza per Milano, a lavorare da Gio Ponti (anche qui, in realtà, “non lavorò mai con lui”, però diventa direttrice di Domus). E quella per il Brasile, col marito Pietro Maria Bardi, anche lui fascistissimo, amico personale del Duce, per cui è meglio cambiare aria alla fine del regime. In Brasile,  il “deslumbramento”, un “abbagliamento”, per “la semplicità intelligente, un paese immaginifico, che non ha una classe media ma solo due grandi aristocrazie, quella della terra e quella del popolo”. “Quello che ho fatto in Brasile non lo avrei potuto costruire in Europa. Per questo sono brasiliana”, dirà la Bardi deslumbrada da un paese con un’architettura “che non ha diecimila anni ma dieci, dove costruire è necessario, e l’architetto brasiliano è un ragazzo chiamato alle armi all’improvviso”. “Le città brasiliane rivelano un’umanità che vuole sistemarsi rapidamente, guadagnare tempo: un’umanità che lavora”. E “Il popolo qui non conosce cattivo gusto. Chi glielo inculcherà artificialmente commetterà il peggiore dei delitti”. Lì farà le sue costruzioni magnifiche, ricostruirà anche un po’ di memorie, il resto è storia e bellezza. E anche qualche altro claim mica male: “una donna indipendente è quella che ha i suoi soldi in tasca, e va a cena da Maxim a Parigi: e ne esce con un bellimbusto”.  

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).