La Sinagoga di Torino (LaPresse)

Assembrati in sinagoga

Manuel Orazi

Non solo luogo di culto. Un viaggio negli stili e nelle tradizioni regionali della penisola

La raccolta di Adam Smulevich, Sinagoghe italiane. Raccontate e disegnate, illustrazioni di Pierfranco Fabris (Pordenone, Biblioteca dell’Immagine 2020, 15 euro) non va letta come una guida, ma come un’antologia di racconti brevi così come La sinagoga degli iconoclasti che Rodolfo J. Wilcock nel 1972 dedicò a trentasei personaggi bizzarri di fantasia. Pur reali, le storie delle sinagoghe italiane sono altrettanto stupefacenti e sono anche di più; qui ne sono state scelte quarantadue, ma sono molte di più contando quelle smantellate, convertite o perdute.

 

Non è possibile classificarle secondo un’unica regola, l’unica cosa che hanno in comune secondo Luca Zevi infatti è un carattere prestazionale anti-tipologico: “La Sinagoga, prima ancora che luogo di preghiera, è luogo di studio. Ma non è soltanto questo. Essa svolge regolarmente una funzione di aggregazione sociale e spesso anche di sede del Bet din, il tribunale rabbinico. E senza che a queste differenti attività, nella maggior parte dei casi, venga attribuito un ambiente fisico particolare”. Ne consegue che viaggiare per sinagoghe equivale a un viaggio negli stili e nelle tradizioni regionali della penisola, dal romanico della Scolanova di Trani all’architettura moderna di Eugenio Gentili Tedeschi a Milano, passando per il manierismo di quella di Pesaro, il barocco di Casale Monferrato, il rococò di Siena, il neoclassico di Reggio Emilia e così via.

 

Ovviamente fra tutte emergono i tre enormi templi dall’eclettismo orientaleggiante di Firenze (stile moresco), Roma (assiro-babilonese) e Trieste (bizantineggiante). Due sono state costruite durante il ventennio fascista, quella rocciosa di Genova (1935) e quella di Fiume (1928) che nel libro non c’è – nonostante che proprio là affondino le radici famigliari dell’autore.

 

Certo restano anche delle parti di città come le cinque sinagoghe del ghetto veneziano o piazza delle cinque scole a Roma o ancora le tre sinagoghe ferraresi riunite in via Mazzini e ricordate da Giorgio Bassani – fra cui quella misteriosa “di rito fanese”.

 

In uno studio sulla sinagoga nel Medioevo, David Cassuto ha scritto che questa “cercava di celarsi nel quartiere ebraico, di non dar nell’occhio e, se veniva costruita, il suo posto era presso abitazioni e botteghe. Essa avrebbe dovuto assolvere due funzioni contrastanti, cioè servire da vedetta e da fortezza, nel caso che la comunità fosse attaccata, e, d’altro canto, da luogo di riunione sociale, di studio e di preghiera”. Non era facile cioè nascondersi se poi si creavano chiassosi assembramenti di cui resta traccia ancora oggi nel dialetto di Imola ad esempio, dove per indicare il baccano creato dai bambini che giocano si dice “ohi ma cos’è sta sinagoga”?

 

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